venerdì 20 luglio 2007

«Mia figlia uccisa da un kamikaze. Ma dico: dialogo con Hamas»


La scrittrice israeliana insignita del premio Sakharov del Parlamento Europeo per il suo impegno a favore della pace: noi genitori israeliani e palestinesi di figli uccisi dal terrorismo riteniamo che bisogna conoscere anche le ragioni del nemico

Umberto De Giovannangeli intervista Nurit Peled Elhanan, scrittrice israeliana la cui figlia di 13 anni è morta in un attentato terrorista. l'Unità. 19/07/07. «Quella mattina mia figlia uscì di casa, io non volevo. Ma lei disse: "Mamma lasciami vivere normalmente". Avrei dovuto impedirglielo, non ne ho avuto la forza e lei adesso è morta». Così Nurit Peled Elhanan racconta la morte di Smadar, la figlia tredicenne, uccisa in un attentato terrorista palestinese, condotto su un autobus a Gerusalemme da un kamikaze di Hamas, il 4 settembre 1997. «La morte di ogni figlio - afferma - è la morte del mondo intero. Mia figlia fu uccisa perché israeliana da un giovane talmente disperato da uccidere e uccidersi perché palestinese». Nurit Peled Elhanan ha saputo trasformare quel dolore indicibile in energia attiva a favore del dialogo: docente di Linguaggio ed educazione all'Università Ebraica di Gerusalemme, scrittrice, nel 2001 ha ricevuto dal Parlamento europeo il Premio Sakharov per i diritti umani. Nurit è anche figlia di uno degli eroi di Tsahal: il generale Matti Peled, che combattè nella guerra di Indipendenza del 1948 a fianco di David Ben Gurion, che fu capo di stato maggiore, assieme a Yitzhak Rabin, nella Guerra dei Sei giorni, e che dopo quella guerra fu in prima linea nella lotta per restituire i territori occupati ai palestinesi.

Nei giorni della polemica su Hamas, la sua testimonianza dà conto del coraggio di tante donne e uomini, israeliani e palestinesi, che come Nurit hanno perso i propri figli in attentati e rappresaglie, riuscendo a trasformare il loro dolore in volontà di dialogo, dando vita a «Parents circle», associazione che riunisce genitori di vittime della violenza sia israeliani che palestinesi.
Cosa significa per una madre che ha visto morire la propria figlia in un attentato suicida, la parola dialogo?
«Significa provare ad andare alle radici di una tragedia collettiva e non restare prigioniera del proprio dolore. Significa non essere divorata dal desiderio di vendetta. Significa chiedersi cosa ha spinto un ragazzo palestinese a distruggersi e a distruggere altre vite. Significa anche ricercare il dialogo con il "nemico". L'alternativa al dialogo è l'"inferno". E in questo inferno non restiamo che noi, le vittime delle due parti che cercano di arrestare questa follia. Noi siamo i soli che cercano di salvare questi bambini dalla loro terribile sorte di carnefici e vittime, che cercano di spiegare ai giovani israeliani idealisti che servire il loro Paese non vuol dire obbedire come dei robot agli ordini mortiferi, che cercano di convincere i bambini palestinesi che il loro popolo ha bisogno di loro vivi e non morti. Noi siamo i soli a gridare alle orecchie del mondo intero che per i nostri bambini morti non c'è differenza tra ciò che il mondo chiama terrorismo e ciò che chiama guerra contro il terrorismo. Per la mia piccola figlia che è morta a Gerusalemme perché era israeliana e per i piccoli bambini che muoiono a Gaza e a Jenin e a Ramallah perché essi sono palestinesi, questa differenza non esiste più. Perché l'uno e l'altro, il terrore e il controterrore, significano la morte impietosa degli innocenti. Perché in effetti non esistono delle uccisioni civilizzate di innocenti e delle uccisioni barbare degli innocenti. Non esiste che l'uccisione criminale degli innocenti. Non c'è nessuna parola che sia così carica di senso, ideologica e emozionale come la parola NOI. È tempo ora di ripensare questa parola, di ridefinire il nostro noi. Noi, le vittime del terrorismo e della guerra contro il terrorismo, noi a cui la morte dei nostri bambini ha dato una nuova voce lo abbiamo fatto».
Come declina oggi quel «Noi»?
«Il mio "noi" per me è composto da tutti quelli che sono pronti a lottare per preservare la vita e per salvare dei figli dalla morte. Da madri e padri che non vedono una consolazione nell'omicidio dei figli degli altri. È vero che là dove noi siamo, questa parte conta più palestinesi che ebrei, perché sono loro che tentano ad ogni costo - e con una forza che non mi è familiare ma che non posso che ammirare - di continuare a condurre un'esistenza nelle condizioni infernali che il regime dell'occupazione, Tuttavia, anche per noi, vittime ebree dell'occupazione, che cerchiamo di liberarci della cultura della forza e della distruzione nella guerra di civiltà che si porta avanti in questi luoghi, anche per noi c'è posto qui».
Nei suoi libri, nei suoi interventi, nel suo agire quotidiano c'è un costante riferimento ai bambini, costretti a vivere nel «regno della morte». Cos'è questo «regno»?
«Nel regno della morte i bambini israeliani giacciono accanto a quelli palestinesi, i soldati dell'esercito d'occupazione accanto agli attentatori suicidi, e nessuno ricorda chi era Davide e chi era Golia, perché hanno visto in faccia la verità e hanno capito di essere stati imbrogliati e ingannati, che politici senza sentimenti o coscienza hanno perso al gioco le loro vite mentre continuano a giocare d'azzardo con la vita di tutti noi. Abbiamo dato loro il potere, attraverso elezioni democratiche, di fare della nostra casa un'arena di omicidi senza fine. Solo se li fermeremo, potremo tornare a una vita normale in questo luogo, e allora la morte non avrà dominio».
Per fermare l'ondata di attacchi terroristici, Israele ha costruito la barriera di sicurezza in Cisgiordania. Cos’ è per lei quella barriera?
«Quel muro di cemento, rigido, minaccioso, invasivo, è il nostro muro della vergogna. E al mondo non dobbiamo chiedere di assolverci da ogni colpa in nome della Shoah; al mondo dobbiamo chiedere, spiegare che se vuole davvero salvare il popolo israeliano e il popolo palestinese dall'olocausto che minaccia tutti noi, è necessario che condanni la politica di occupazione, il dominio della morte deve essere fermato nel suo percorso».
Cos’ è pace per Nurit Peled?
«È la fine dell'occupazione. È il riconoscimento, vero, dell'esistenza dell'altro. Solo così Israele salverà sé da sé, tornado ad essere luce per le nazioni e non "oggetto di disgrazia per le nazioni e il dileggio per tutti i Paesi"».


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