Arrigo Levi. La Stampa. 20/07/07. Nessuna vittoria in guerra, insegnava Rabin, avrebbe mai potuto assicurare per sempre la sopravvivenza dello Stato ebraico: ma solo la pace. E la pace, come disse per primo Dayan, la si fa con i nemici. Sperare contro ogni speranza. È lo slogan che ha accompagnato per tutta una vita chi d’istinto s’identifica anzitutto con le ragioni d’Israele, ma non ha mai ignorato o dimenticato che il conflitto israelo-palestinese è, più forse di ogni altro conflitto storico, uno scontro fra due ragioni.
Chi, in un tempo pur lontano della propria vita, giudicò che non valesse la pena di sopravvivere, per un ebreo scampato alla Shoah, se non fosse sopravvissuto lo Stato d’Israele appena allora creato, e che scelse quindi di vivere, per un tempo pur limitato, una vita da Israeliano in divisa in Israele in guerra, sa bene quanto sia difficile esprimere giudizi o dare consigli su quella che dovrebbe essere la politica del governo israeliano, senza essere cittadino d’Israele. Come giudicare da lontano quale sia la strada giusta da seguire per vanificare le minacce, che non sono mai cessate, al diritto d’Israele ad esistere, quando non è la tua vita ad essere in giuoco?
Ma chi ha cara, ora come sessant’anni fa, la sopravvivenza dello Stato ebraico, non può sottrarsi al diritto di giudicare, di suggerire o anche, come una volta mi è accaduto di argomentare in una «column» del Times in polemica con un amico americano, di «criticare Begin», se ciò ti sembra giusto nell’interesse d’Israele. Venire meno a questo dovere, che tale è, oltre che un diritto, sarebbe una colpa.
Sarebbe una colpa non smettere di interrogarsi su quale sia la via migliore da seguire per assicurare il futuro d’Israele. Ben sapendo che, alla fin fine, toccherà ovviamente solo ai cittadini israeliani di fare le loro scelte e che gli ebrei che hanno scelto, legittimamente, di continuare a vivere nella diaspora hanno il diritto di parola sulle decisioni d’Israele, ma debbono esercitare questo diritto con prudenza e rispetto per chi vede ogni giorno messa in dubbio la propria esistenza, l’esistenza dello Stato ebraico. La prudenza significa anche l’esercizio continuo e intenso della pratica di un dialogo con gli antagonisti storici d’Israele, con i nemici d’Israele, come contributo alla ricerca della giusta via.
Prudenza, ancora oggi, nel giudicare la condizione singolare in cui si trova Israele trovandosi di fronte non una ma due Palestine e due governi palestinesi: quello «moderato», disposto a riconoscere Israele, di Ramallah e di Abu Mazen, e quello estremista di Gaza e di Hamas, che ha troppe volte proclamato e praticato una politica della violenza, del terrorismo, del rifiuto d’Israele.
È una situazione singolare, ma non così priva di precedenti, come sembrano pensare alcuni, che non hanno forse seguito incessantemente e con la stessa passione da più di mezzo secolo le dure vicende del conflitto israelo-palestinese. Perché Israele ha sempre avuto di fronte due Palestine, anzi due mondi arabi; ha sempre dovuto sforzarsi di seguire una via capace di condurre alla pace che non fosse la via della guerra, imposta, subita, ma non ricercata; ha sempre dovuto sforzarsi di frantumare il «fronte del no» e di far scaturire dal suo interno personalità disposte a trattare. Perché, insegnava Rabin, nessuna vittoria in guerra avrebbe mai potuto assicurare per sempre la sopravvivenza dello Stato ebraico: ma solo la pace. E la pace, come disse per primo Dayan, la si fa con i nemici.
Di fronte al dibattito che si è oggi riacceso, in Occidente e in particolar modo in Italia, su chi sostiene che conviene non chiudere la porta a un negoziato anche con Hamas, e chi dice che questo vuol dire (ma è proprio così?) «tradire Israele» e condannare Abu Mazen, s’impone una scelta non facile, che va fatta attingendo anche alla sofferta memoria del passato. Lasciamo che questo lo giudichino, alla fin fine, gli Israeliani, che non hanno bisogno di troppi accesi difensori, perché sanno difendersi da sé, e lo hanno dimostrato.
Quello che, però, la memoria storica insegna, o così almeno a me sembra, è che non sarà mai la sola forza militare a salvare Israele, anche se la potenza militare israeliana è una precondizione necessaria della sopravvivenza dello Stato ebraico; e che la via del negoziato, con chiunque accetti, in qualsiasi modo e per qualsiasi via, pubblica o riservata, di incominciare a trattare con Israele, sia pur rinviando alla fine e all’ipotetico successo del negoziato il riconoscimento pubblico e finale d’Israele, rimane pur sempre una via giusta; anche se non è affatto garantito che porterà al successo.
Esplorare la possibilità di aprire questa via, per quanto appaia difficile, mi sembra giusto oggi, com’era giusto dieci o venti o trent’anni fa: tutti i governi israeliani del passato hanno sempre lasciato aperta o socchiusa la via del negoziato, con chiunque riconoscesse o non riconoscesse Israele, purché fosse disposto a negoziare con Israele. Arafat (l’avete dimenticato?) era un terrorista. L’Egitto e gli Stati arabi impegnarono tutta la loro forza per distruggere Israele. Per vie diverse e difficili, Israele trovò il modo di stabilire un confronto con questi nemici che volevano la sua fine. E questi sforzi non furono vani.
Il quadro odierno appare più complesso, perché la spaccatura tra pacifisti e guerrafondai palestinesi è più netta di quanto sia mai stata e perché al conflitto nazionale si è anche sovrapposta una conflittualità religiosa acuta, più che mai in passato. Ma il conflitto è lo stesso di sempre, e la grande maggioranza dei due popoli sembra ancora convinta che alla fine bisognerà rassegnarsi alla convivenza di «due Stati sulla stessa terra». Sulla carta, il compito affidato alla duttilità di Tony Blair, che è riuscito a far pace persino fra Irlandesi cattolici e protestanti, è apparentemente insolubile. Ma la storia è ricca di esempi di crisi insolubili risolte. Io dico: lasciamolo lavorare. Mettiamo a sua disposizione tutta la forza, economica, politica, ma anche militare dell’Europa unita, e quella di un’America che sta riconoscendo i limiti della sua potenza, e cercando nuove vie per far pace col mondo arabo e islamico.
E non gli stiamo troppo alle costole con pubbliche dichiarazioni (ho dei dubbi sull’utilità della pubblicazione del documento dei dieci ministri europei, o anche di pubbliche prese di posizione di singoli ministri europei, anche se, sicuramente, ben intenzionati).
Sperare contro ogni speranza. È lo slogan che ha accompagnato per tutta una vita chi d’istinto s’identifica anzitutto con le ragioni d’Israele, ma non ha mai ignorato o dimenticato che il conflitto israelo-palestinese è, più forse di ogni altro conflitto storico, uno scontro fra due ragioni. Esprimo concetti che vado ripetendo da sempre, e che mi hanno guidato in ripetute ricerche della via del dialogo e della pace. Mi dà forza sapere quanti amici israeliani che stimo condividono questi sentimenti.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=3287&ID_sezione=&sezione=
Chi, in un tempo pur lontano della propria vita, giudicò che non valesse la pena di sopravvivere, per un ebreo scampato alla Shoah, se non fosse sopravvissuto lo Stato d’Israele appena allora creato, e che scelse quindi di vivere, per un tempo pur limitato, una vita da Israeliano in divisa in Israele in guerra, sa bene quanto sia difficile esprimere giudizi o dare consigli su quella che dovrebbe essere la politica del governo israeliano, senza essere cittadino d’Israele. Come giudicare da lontano quale sia la strada giusta da seguire per vanificare le minacce, che non sono mai cessate, al diritto d’Israele ad esistere, quando non è la tua vita ad essere in giuoco?
Ma chi ha cara, ora come sessant’anni fa, la sopravvivenza dello Stato ebraico, non può sottrarsi al diritto di giudicare, di suggerire o anche, come una volta mi è accaduto di argomentare in una «column» del Times in polemica con un amico americano, di «criticare Begin», se ciò ti sembra giusto nell’interesse d’Israele. Venire meno a questo dovere, che tale è, oltre che un diritto, sarebbe una colpa.
Sarebbe una colpa non smettere di interrogarsi su quale sia la via migliore da seguire per assicurare il futuro d’Israele. Ben sapendo che, alla fin fine, toccherà ovviamente solo ai cittadini israeliani di fare le loro scelte e che gli ebrei che hanno scelto, legittimamente, di continuare a vivere nella diaspora hanno il diritto di parola sulle decisioni d’Israele, ma debbono esercitare questo diritto con prudenza e rispetto per chi vede ogni giorno messa in dubbio la propria esistenza, l’esistenza dello Stato ebraico. La prudenza significa anche l’esercizio continuo e intenso della pratica di un dialogo con gli antagonisti storici d’Israele, con i nemici d’Israele, come contributo alla ricerca della giusta via.
Prudenza, ancora oggi, nel giudicare la condizione singolare in cui si trova Israele trovandosi di fronte non una ma due Palestine e due governi palestinesi: quello «moderato», disposto a riconoscere Israele, di Ramallah e di Abu Mazen, e quello estremista di Gaza e di Hamas, che ha troppe volte proclamato e praticato una politica della violenza, del terrorismo, del rifiuto d’Israele.
È una situazione singolare, ma non così priva di precedenti, come sembrano pensare alcuni, che non hanno forse seguito incessantemente e con la stessa passione da più di mezzo secolo le dure vicende del conflitto israelo-palestinese. Perché Israele ha sempre avuto di fronte due Palestine, anzi due mondi arabi; ha sempre dovuto sforzarsi di seguire una via capace di condurre alla pace che non fosse la via della guerra, imposta, subita, ma non ricercata; ha sempre dovuto sforzarsi di frantumare il «fronte del no» e di far scaturire dal suo interno personalità disposte a trattare. Perché, insegnava Rabin, nessuna vittoria in guerra avrebbe mai potuto assicurare per sempre la sopravvivenza dello Stato ebraico: ma solo la pace. E la pace, come disse per primo Dayan, la si fa con i nemici.
Di fronte al dibattito che si è oggi riacceso, in Occidente e in particolar modo in Italia, su chi sostiene che conviene non chiudere la porta a un negoziato anche con Hamas, e chi dice che questo vuol dire (ma è proprio così?) «tradire Israele» e condannare Abu Mazen, s’impone una scelta non facile, che va fatta attingendo anche alla sofferta memoria del passato. Lasciamo che questo lo giudichino, alla fin fine, gli Israeliani, che non hanno bisogno di troppi accesi difensori, perché sanno difendersi da sé, e lo hanno dimostrato.
Quello che, però, la memoria storica insegna, o così almeno a me sembra, è che non sarà mai la sola forza militare a salvare Israele, anche se la potenza militare israeliana è una precondizione necessaria della sopravvivenza dello Stato ebraico; e che la via del negoziato, con chiunque accetti, in qualsiasi modo e per qualsiasi via, pubblica o riservata, di incominciare a trattare con Israele, sia pur rinviando alla fine e all’ipotetico successo del negoziato il riconoscimento pubblico e finale d’Israele, rimane pur sempre una via giusta; anche se non è affatto garantito che porterà al successo.
Esplorare la possibilità di aprire questa via, per quanto appaia difficile, mi sembra giusto oggi, com’era giusto dieci o venti o trent’anni fa: tutti i governi israeliani del passato hanno sempre lasciato aperta o socchiusa la via del negoziato, con chiunque riconoscesse o non riconoscesse Israele, purché fosse disposto a negoziare con Israele. Arafat (l’avete dimenticato?) era un terrorista. L’Egitto e gli Stati arabi impegnarono tutta la loro forza per distruggere Israele. Per vie diverse e difficili, Israele trovò il modo di stabilire un confronto con questi nemici che volevano la sua fine. E questi sforzi non furono vani.
Il quadro odierno appare più complesso, perché la spaccatura tra pacifisti e guerrafondai palestinesi è più netta di quanto sia mai stata e perché al conflitto nazionale si è anche sovrapposta una conflittualità religiosa acuta, più che mai in passato. Ma il conflitto è lo stesso di sempre, e la grande maggioranza dei due popoli sembra ancora convinta che alla fine bisognerà rassegnarsi alla convivenza di «due Stati sulla stessa terra». Sulla carta, il compito affidato alla duttilità di Tony Blair, che è riuscito a far pace persino fra Irlandesi cattolici e protestanti, è apparentemente insolubile. Ma la storia è ricca di esempi di crisi insolubili risolte. Io dico: lasciamolo lavorare. Mettiamo a sua disposizione tutta la forza, economica, politica, ma anche militare dell’Europa unita, e quella di un’America che sta riconoscendo i limiti della sua potenza, e cercando nuove vie per far pace col mondo arabo e islamico.
E non gli stiamo troppo alle costole con pubbliche dichiarazioni (ho dei dubbi sull’utilità della pubblicazione del documento dei dieci ministri europei, o anche di pubbliche prese di posizione di singoli ministri europei, anche se, sicuramente, ben intenzionati).
Sperare contro ogni speranza. È lo slogan che ha accompagnato per tutta una vita chi d’istinto s’identifica anzitutto con le ragioni d’Israele, ma non ha mai ignorato o dimenticato che il conflitto israelo-palestinese è, più forse di ogni altro conflitto storico, uno scontro fra due ragioni. Esprimo concetti che vado ripetendo da sempre, e che mi hanno guidato in ripetute ricerche della via del dialogo e della pace. Mi dà forza sapere quanti amici israeliani che stimo condividono questi sentimenti.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=3287&ID_sezione=&sezione=
1 commento:
ciao ho postato il titolo di quest'articolo sul mio blog con il link del tuo blog ..se ti crea problemi avvisami Buon lavoro
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