Tra questi partiti, su espressa sollecitazione di Sarkozy (dichiarato modello politico per il leader di An Gianfranco Fini) e Kouchner, c’era anche Hezbollah, il movimento sciita che gli epigoni nostrani della fallimentare «guerra preventiva» vorrebbero trattare in un solo modo: con la forza. Ma torniamo alla «Lettera dei Dieci»; in quella lettera, ricorda D’Alema, c’era un punto, quello che sollecita un lavoro comune per la ripresa del dialogo tra Fatah e Hamas, che «viene sollecitato da un leader arabo tra i più impegnati nel processo di pace: il presidente egiziano Hosni Mubarak». Massimo D'Alema svolge queste considerazioni davanti a mille persone, l'altro ieri alla Festa nazionale dell'Unità sulla politica estera a San Miniato. Riflessioni alla luce del sole. Che oggi il titolare della Farnesina riprenderà, puntualizzandole, nel suo incontro a Roma con il neo inviato speciale del Quartetto (Usa-Ue-Onu-Russia), l'ex premier britannico Tony Blair.
«Hamas - rimarca D'Alema - si è reso protagonista di atti terroristici, ma è anche un movimento popolare. È una forza reale che rappresenta tanta parte del popolo palestinese», e quindi, sarebbe sbagliato «regalare ad Al Qaeda movimenti come Hamas o Hezbollah». Dovrebbe essere «interesse della comunità internazionale evitare di spingere questi movimenti nelle braccia di Al Qaeda»: le considerazioni di D'Alema scatenano la reazione sdegnata del centrodestra e vengono «tritate» nello stantio minestrone delle polemiche interne. Vale invece la pena far parlare sull'argomento chi ha più esperienza diretta, e voce in capitolo. Come Shlomo Ben Ami, che fu ministro degli Esteri d'Israele nel biennio 2000-2001, durante il governo di Ehud Barak (Labour). In quella veste Ben Ami partecipò, con un ruolo di primo piano, ai negoziati di Camp David e alla conferenza di Taba. Riflette Ben Ami nel suo libro «Palestina. La storia incompiuta. La tragedia arabo-israeliana» (Corbaccio, 2007): «La reazione alla supremazia del governo Hamas non deve consistere negli sforzi a isolarlo e quindi a rovesciarlo, ma piuttosto in un serio tentativo di iniziare a valutare le ragioni profonde che conducono alle democrazie islamiche e, piu' importante, a trattenersi dal giudicarle attraverso i soliti cliché».
E ancora: «Israele e Occidente - sottolinea Ben Ami, che è stato anche ambasciatore in Spagna, e come tale membro della delegazione israeliana alla Conferenza di Pace di Madrid, nel 1991 - devono dare una possibilità al nuovo governo Hamas. Fin dagli anni 90. Hamas si è imbarcato in un difficile viaggio dal jihadismo alla partecipazione politica, e va incoraggiato. È un errore vederlo come un'organizzazione fanaticamente monolitica e con una rigida visione manichea degli affari nel mondo...» Così un intellettuale e politico di primo piano dello Stato ebraico che, è bene ricordarlo, nel suo trascorso pubblico ha ricoperto anche gli incarichi di Capo della delegazione israeliana nei colloqui multilaterali sui rifugiati e di ministro per la Sicurezza pubblica.
«Il modo più incisivo per rafforzare la leadership di Abu Mazen e circoscrivere l'influenza di Hamas, è di procedere con decisione ad un negoziato di pace che porti ad un accordo globale tra le parti»: un altro tasto sul cui il capo della diplomazia italiana ha piu' volte battuto, e che trova alimento nella riflessione di Khaled Hroub, intellettuale laico palestinese, direttore dell'Arab Media Project presso la Cambridge University, autore di «Hamas. Un movimento tra lotta armata e governo della Palestina» (Bruno Mondatori, 2006): «Ritengo che Hamas sia la naturale conseguenza delle innaturali e brutali condizioni di occupazione. Il suo radicalismo dovrebbe essere interpretato come logico e prevedibile risultato del processo di colonizzazione messo in atto da Israele in Palestina». «I palestinesi - aggiunge Hroub - stanno dalla parte di qualunque movimento abbracci la causa della resistenza contro l'occupazione israeliana e prometta di difendere il loro diritto alla libertà e all'autodeterminazione. In questo momento storico, essi vedono in Hamas il garante di questo diritto…».
Un diritto che nulla a che vedere con il Jihad globalizzato evocato, e praticato, da Al Qaeda. Il cui obiettivo resta quello indicato nella «Dichiarazione del fronte islamico mondiale per la Guerra Santa», firmata il 23 febbraio 1998, fra gli altri, da Osama Bin Laden e dal suo vice, Ayman al-Zawahri: «Chiamiamo, se Dio lo permette, ogni musulmano credente e desideroso di essere ricompensato da Lui a ottemperare all'ordine di Dio e a uccidere gli americani e saccheggiare i loro beni, ovunque si trovino e in ogni momento». Questo è il programma di Al Qaeda, che mira a fare di Palestina e Libano un'unica trincea jihadista, assieme all'Iraq. Se così è resta sul tappeto la questione cruciale posta da D'Alema: come evitare di spingere Hamas nelle braccia di Al Qaeda. La Francia di Sarkozy ha dato una risposta. Ma i fans italiani di «Nicolas l'innovatore» fanno finta di niente.
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