Umberto De Giovannangeli. l'Unità. 17/07/07. «Abu Mazen è stato eletto dal popolo palestinese e non intende rinunciare alle sue prerogative. Non sarà una banda di golpisti (i miliziani di Hamas, ndr) manovrati dall'esterno a impedirgli di assolvere alle sue funzioni. Ma dialogo non è sinonimo di resa,: questo Israele deve averlo ben chiaro in testa. La pace è riconoscimento delle ragioni dell'altro, è porre fine all'occupazione simboleggiata dal muro dell'apartheid, è porre fine all'assedio di Gaza, è ripristinare la legalità internazionale, è la liberazione dei prigionieri, è il diritto al ritorno dei rifugiati del 1948...».
UN TEMPO neanche troppo lontano, era il ricercato numero uno di Israele. Per i palestinesi di Jenin è l'eroe dell'Intifada armata, per le unità di élite di Tsahal il nemico più pericoloso da eliminare. Nonostante la giovane età, per i ragazzini palestinesi è già divenuto una leggenda, un modello da imitare. Il suo nome è Zakariya Zubeidi, 31 anni, capo delle Brigate dei martiri di Al Aqsa a Jenin, la «capitale» dell'Intifada. Lui e i suoi uomini furono i più tenaci difensori di Arafat nei mesi di assedio israeliano alla Muqata, il quartier generale del rais a Ramallah. Zubeidi è sfuggito a innumerevoli tentativi di eliminazione mirata. Se Marwan Barghuti è stato il simbolo politico della seconda Intifada in Cisgiordania, Zakariya Zubeidi ne è stato l'artefice sul campo. Per questo è stato definito dai ragazzi di Jenin il «Che (Guevara) di Palestina». Oggi Zubeidi ha deciso di abbandonare la lotta armata, e come lui almeno altri 180 militanti delle Brigate Al Aqsa, il braccio armato di Al Fatah, che hanno sottoscritto un documento nel quale si impegnano a «cessare gli attacchi contro Israele». In questa intervista esclusiva a l'Unità, il leader delle Brigate Al Aqsa spiega le ragioni di questa scelta: «Abbiamo abbandonato le armi ma non abbiamo rinunciato a batterci per i diritti del popolo palestinese. Ma sono altre le “armi” che oggi vanno imbracciate per difendere i nostri diritti: sono le “armi” della politica». Del suo passato, Zubeidi non rinnega nulla: «Ho visto morire attorno a me decine di compagni. Li ricordo uno per uno. E li onoro. Perché hanno sacrificato la loro vita per un ideale: la Palestina libera». «Noi -aggiunge- non ci aspettiamo nulla di buono dall'occupazione, né obbediamo agli ordini di Israele. Siamo agli ordini della nostra direzione e del suo capo, Mahmud Abbas (Abu Mazen). È per lui che abbiamo deposto le armi».
Nel giorno del nuovo incontro tra Ehud Olmert e Abu Mazen, lei ribadisce l'addio alle armi. È una resa?
«No, è la determinazione a proseguire con altri mezzi la stessa battaglia: quella per la creazione di uno Stato di Palestina sui territori occupati da Israele nel 1967».
Qual è allora il senso della decisione assunta?
«Semplice: le Brigate Al-Aqsa non rappresenteranno un ostacolo verso i progetti politici volti a risolvere la questione palestinese».
Un passo importante che ha anche un segno di autocritica rispetto al passato?
«Ho visto morire attorno a me decine di compagni. Li ricordo uno a uno. Non erano dei pazzi assetati di sangue, amavano la vita ma ancor di più la libertà. Sono caduti in nome della Palestina libera, per questo continuerò a onorarli. Ma anche allora era chiaro in noi che non era con le armi che potevamo edificare lo Stato di Palestina: quelle armi potevano difendere la nostra gente, dimostrare a Israele che non era con la forza che avrebbe garantito la propria sicurezza, ma le armi non potevano sostituire la politica, il negoziato. Quel tempo è venuto. E il tempo che la politica dia una speranza a migliaia di giovani palestinesi che fin qui hanno conosciuto solo sofferenza, dolore, rabbia. Negoziati seri rappresentano un mezzo di resistenza all'occupazione come lo è il fucile, ma bisogna saper valutare quando utilizzare l'uno o l'altro mezzo a seconda del momento».
C'è chi sostiene che alla base della sua scelta c'è la garanzia di essere tirato fuori dalla lista nera di Israele.
«In altri termini avrei deposto le armi per salvarmi la vita. È una infamia, a cui non intendo ribattere. I miei compagni, quelli con cui ho condiviso momenti terribili, sanno che la scelta a cui siamo giunti è frutto di una riflessione difficile, che ci ha accompagnato negli anni in cui eravamo braccati dagli israeliani, ben presente anche quando eravamo impegnati nei combattimenti. La nostra è una scelta politica che non ha nulla a che fare con i destini individuali».
Una scelta di disarmo con cui le Brigate Al Aqsa intendono sostenere la politica di Abu Mazen, un presidente dimezzato…
«Dimezzato? Abu Mazen è stato eletto dal popolo palestinese e non intende rinunciare alle sue prerogative. Non sarà una banda di golpisti (i miliziani di Hamas, ndr) manovrati dall'esterno a impedirgli di assolvere alle sue funzioni. Ma dialogo non è sinonimo di resa,: questo Israele deve averlo ben chiaro in testa. La pace è riconoscimento delle ragioni dell'altro, è porre fine all'occupazione simboleggiata dal muro dell'apartheid, è porre fine all'assedio di Gaza, è ripristinare la legalità internazionale, è la liberazione dei prigionieri, è il diritto al ritorno dei rifugiati del 1948...».
E per voi delle Brigate Al Aqsa qual è il «prezzo» da pagare per una pace giusta, dura, tra pari?
«È riconoscere che non c'è altra soluzione che quella di due popoli, due Stati. E che Israele va accettato per quel che è: lo Stato degli Ebrei, con il quale vivere a fianco».
Una linea che verrebbe tacciata di tradimento da i capi di Al Qaeda.
«Non m'interessa. Al miliardario saudita (Osama Bin Laden, ndr) non è mai fregato niente di noi palestinesi, nel suo intimo ci considera razza inferiore; lui vuole solo strumentalizzare la nostra sofferenza. I palestinesi non sono nemici dell'Occidente, ci consideriamo amici dell'Europa: noi vogliamo solo poter vivere da uomini e donne liberi sulla nostra terra. Per averci al suo fianco, Bin Laden ci ha promesso armi e denaro. Ma noi palestinesi non siamo carne da macello per il suo Jihad».
Sarà possibile riprendere il dialogo con Hamas?
«Forse, ma non di certo con coloro che si sono macchiati dei peggiori crimini a Gaza. I carnefici dei propri fratelli non possono restare impuniti».
UN TEMPO neanche troppo lontano, era il ricercato numero uno di Israele. Per i palestinesi di Jenin è l'eroe dell'Intifada armata, per le unità di élite di Tsahal il nemico più pericoloso da eliminare. Nonostante la giovane età, per i ragazzini palestinesi è già divenuto una leggenda, un modello da imitare. Il suo nome è Zakariya Zubeidi, 31 anni, capo delle Brigate dei martiri di Al Aqsa a Jenin, la «capitale» dell'Intifada. Lui e i suoi uomini furono i più tenaci difensori di Arafat nei mesi di assedio israeliano alla Muqata, il quartier generale del rais a Ramallah. Zubeidi è sfuggito a innumerevoli tentativi di eliminazione mirata. Se Marwan Barghuti è stato il simbolo politico della seconda Intifada in Cisgiordania, Zakariya Zubeidi ne è stato l'artefice sul campo. Per questo è stato definito dai ragazzi di Jenin il «Che (Guevara) di Palestina». Oggi Zubeidi ha deciso di abbandonare la lotta armata, e come lui almeno altri 180 militanti delle Brigate Al Aqsa, il braccio armato di Al Fatah, che hanno sottoscritto un documento nel quale si impegnano a «cessare gli attacchi contro Israele». In questa intervista esclusiva a l'Unità, il leader delle Brigate Al Aqsa spiega le ragioni di questa scelta: «Abbiamo abbandonato le armi ma non abbiamo rinunciato a batterci per i diritti del popolo palestinese. Ma sono altre le “armi” che oggi vanno imbracciate per difendere i nostri diritti: sono le “armi” della politica». Del suo passato, Zubeidi non rinnega nulla: «Ho visto morire attorno a me decine di compagni. Li ricordo uno per uno. E li onoro. Perché hanno sacrificato la loro vita per un ideale: la Palestina libera». «Noi -aggiunge- non ci aspettiamo nulla di buono dall'occupazione, né obbediamo agli ordini di Israele. Siamo agli ordini della nostra direzione e del suo capo, Mahmud Abbas (Abu Mazen). È per lui che abbiamo deposto le armi».
Nel giorno del nuovo incontro tra Ehud Olmert e Abu Mazen, lei ribadisce l'addio alle armi. È una resa?
«No, è la determinazione a proseguire con altri mezzi la stessa battaglia: quella per la creazione di uno Stato di Palestina sui territori occupati da Israele nel 1967».
Qual è allora il senso della decisione assunta?
«Semplice: le Brigate Al-Aqsa non rappresenteranno un ostacolo verso i progetti politici volti a risolvere la questione palestinese».
Un passo importante che ha anche un segno di autocritica rispetto al passato?
«Ho visto morire attorno a me decine di compagni. Li ricordo uno a uno. Non erano dei pazzi assetati di sangue, amavano la vita ma ancor di più la libertà. Sono caduti in nome della Palestina libera, per questo continuerò a onorarli. Ma anche allora era chiaro in noi che non era con le armi che potevamo edificare lo Stato di Palestina: quelle armi potevano difendere la nostra gente, dimostrare a Israele che non era con la forza che avrebbe garantito la propria sicurezza, ma le armi non potevano sostituire la politica, il negoziato. Quel tempo è venuto. E il tempo che la politica dia una speranza a migliaia di giovani palestinesi che fin qui hanno conosciuto solo sofferenza, dolore, rabbia. Negoziati seri rappresentano un mezzo di resistenza all'occupazione come lo è il fucile, ma bisogna saper valutare quando utilizzare l'uno o l'altro mezzo a seconda del momento».
C'è chi sostiene che alla base della sua scelta c'è la garanzia di essere tirato fuori dalla lista nera di Israele.
«In altri termini avrei deposto le armi per salvarmi la vita. È una infamia, a cui non intendo ribattere. I miei compagni, quelli con cui ho condiviso momenti terribili, sanno che la scelta a cui siamo giunti è frutto di una riflessione difficile, che ci ha accompagnato negli anni in cui eravamo braccati dagli israeliani, ben presente anche quando eravamo impegnati nei combattimenti. La nostra è una scelta politica che non ha nulla a che fare con i destini individuali».
Una scelta di disarmo con cui le Brigate Al Aqsa intendono sostenere la politica di Abu Mazen, un presidente dimezzato…
«Dimezzato? Abu Mazen è stato eletto dal popolo palestinese e non intende rinunciare alle sue prerogative. Non sarà una banda di golpisti (i miliziani di Hamas, ndr) manovrati dall'esterno a impedirgli di assolvere alle sue funzioni. Ma dialogo non è sinonimo di resa,: questo Israele deve averlo ben chiaro in testa. La pace è riconoscimento delle ragioni dell'altro, è porre fine all'occupazione simboleggiata dal muro dell'apartheid, è porre fine all'assedio di Gaza, è ripristinare la legalità internazionale, è la liberazione dei prigionieri, è il diritto al ritorno dei rifugiati del 1948...».
E per voi delle Brigate Al Aqsa qual è il «prezzo» da pagare per una pace giusta, dura, tra pari?
«È riconoscere che non c'è altra soluzione che quella di due popoli, due Stati. E che Israele va accettato per quel che è: lo Stato degli Ebrei, con il quale vivere a fianco».
Una linea che verrebbe tacciata di tradimento da i capi di Al Qaeda.
«Non m'interessa. Al miliardario saudita (Osama Bin Laden, ndr) non è mai fregato niente di noi palestinesi, nel suo intimo ci considera razza inferiore; lui vuole solo strumentalizzare la nostra sofferenza. I palestinesi non sono nemici dell'Occidente, ci consideriamo amici dell'Europa: noi vogliamo solo poter vivere da uomini e donne liberi sulla nostra terra. Per averci al suo fianco, Bin Laden ci ha promesso armi e denaro. Ma noi palestinesi non siamo carne da macello per il suo Jihad».
Sarà possibile riprendere il dialogo con Hamas?
«Forse, ma non di certo con coloro che si sono macchiati dei peggiori crimini a Gaza. I carnefici dei propri fratelli non possono restare impuniti».
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