sabato 1 settembre 2007

IDF: Three children killed in Gaza Tuesday were just playing tag

Amos Harel, Haaretz Correspondent, 01/09/07. The three Palestinian children killed in Gaza on Tuesday were only playing near rocket launchers targeted by Israeli troops, and were not connected with the terrorists, an army probe determined Thursday. IDF troops near the Gaza Strip are under orders to fire at rocket launchers only when terrorists approach them. The launchers themselves are easily replaceable and are of little value to the terrorist organizations, so the IDF prefers to target the terrorists who are directing the firing.

Ten-year-old Mahmoud Ghazal and his 12-year-old cousin, Yehiya Ghazal, died immediately. Their 10-year-old cousin Sara Ghazal was critically injured and died later.

The Israel Defense Forces said the children were killed after an army ground unit fired on Qassam launchers in the area. The launchers, which were pointed at Israel, were deployed in fields just outside Beit Hanun, near the Ghazal family's home. According to the IDF, troops detected "unidentified movement and opened fire."

In the initial IDF statement after the incident on Tuesday, the army said it "wishes to express sorrow" for the "use of children in terror attacks," implying that the children had been sent by terrorists to collect the rocket launchers. The military has frequently accused terrorist organizations of using teenagers and children in this fashion.

But the probe, which was launched immediately after the incident, determined that the children were playing tag near the launchers, as revealed by army footage recording the incident. The video reportedly shows the children - who appear as figures whose age cannot be determined - approaching the launchers and then moving back, in a way that could be seen as suggesting that they were loading the launchers with rockets.

The terrain did not allow for direct observation of the area, so the army had to rely on aerial photography. The unit that launched the missile at the children used this visual feed to direct their fire, army sources told Haaretz.

The video does show one of the figures to be a child, army sources said, but this happened so close to the moment of impact that the troops were unable to abort in time.

IDF troops near the Gaza Strip are under orders to fire at rocket launchers only when terrorists approach them. The launchers themselves are easily replaceable and are of little value to the terrorist organizations, so the IDF prefers to target the terrorists who are directing the firing.

«Amerai il prossimo tuo come te stesso»


Moni Ovadia. Il Levitico, uno dei libri del Pentateuco, contiene molti versetti memorabili, fra questi ve ne è uno che recita più o meno così: «Se trovi l’asino del tuo nemico smarrito, prendilo per la cavezza e riportaglielo». Strana indicazione quella del biblista. Perché mai dovrei darmi la pena di riportare al mio nemico il suo asino risolvendogli un problema, se i sentimenti che mi animano nei suoi confronti mi portano a distruggerlo o, nel migliore dei casi, a ridurlo all’impotenza? Che cosa dunque vuole indurci a considerare il biblista con questo suggerimento apparentemente contraddittorio? A mio parere vuole invitarci a non dimenticare mai che il nostro nemico, chiunque egli sia, non cessa di rimanere titolare della condizione universale di essere umano. L’altro memorabile precetto del Levitico, il 18,19 «Amerai il prossimo tuo come te stesso», acutamente non indica quali siano le caratteristiche, né i comportamenti, né i tratti caratteriali del prossimo che siamo tenuti ad amare. Il versetto sottace altresì l’etnia, la religione o il colore della pelle di quel prossimo che abbiamo di fronte. Ora, la Toràh non sceglie mai di specificare o di sottacere a caso. Lo fa per sollecitare la responsabilità dell’uomo a stabilire priorità, ad assumersi peso di un’interpretazione. Ritengo che i due versetti del Levitico mirino ad affermare un umanesimo radicale che non accetta a nessun titolo, la disumanizzazione dell’essere umano. Di nessun essere umano. Per questa ragione e molteplici altre, noi siamo tenuti a considerare ogni essere umano come un partner. Quel partner può essere ideale o scabroso, disponibile od ostile ma deve rimanere un partner con il quale non possiamo rifiutarci di cercare il dialogo. Se quel partner è il nemico, dobbiamo in ogni modo sforzarci di cercare una chiave per dialogare con lui appena sia possibile per fare la pace che è l’unica condizione in cui i due precetti del Levitico si possono avverare.

E la pace si fa con il nemico!!!

Veniamo ora alla fattispecie concreta di questi giorni. Il nostro Presidente del Consiglio Romano Prodi, ha invitato a non escludere totalmente la possibilità di aprire il dialogo anche con Hamas in un’eventuale riapertura delle trattative fra israeliani e palestinesi per una pace definitiva e duratura sulla base del contesto “due popoli, due stati”. Questa opinione è stata espressa anche da Yossi Beilin, esponente politico della sinistra israeliana ed ex negoziatore degli accordi di Oslo. In quell’intervista Beilin ricordava che sull’apertura di un possibile dialogo con Hamas, si è espresso anche l’ex capo del Mossad (il servizio segreto israeliano). Quest’opinione, che personalmente condivido, è solo un’opinione, può essere accettata o respinta, ma è una degnissima opinione che merita di essere vagliata con attenzione e pacatezza, non un’adesione incondizionata alle idee e alla prassi di quella formazione islamista. Cosa accade invece nel nostro Paese dove la vera discussione è stata bandita a favore dell’insulto, dell’aggressione e dello sproloquio? Accade che sussiegosi esponenti del nostro centro destra quali l’onorevole Casini, ma in particolare l’onorevole Ronchi di An, specialista in faccine indignate o disgustate, si presentano in televisione con espressione compunta e addolorata e quasi accusano l’on.Prodi e il ministro degli Esteri D’Alema di voler distruggere Israele. Questi addolorati professionali sono poi gli stessi che hanno trascinato l’Italia nell’ignobile avventura irachena avallando le criminose e spudorate menzogne di Bush. Costoro inoltre si credono i veri amici di Israele solo perché sono proni alla politica del governo Olmert in ogni suo aspetto. E se invece, alla fine, i veri amici di Israele si rivelassero i critici onesti e leali dell’occupazione e degli omicidi “mirati”, i sostenitori di quella pace di Ginevra firmata dalle opposizioni palestinese e israeliana e tanto insultata e sbeffeggiata dai teorici dell’uso delle armi?

E se avessero ragione i sostenitori del dialogo a oltranza, anche con Hamas, non per avallarne le opzioni terroriste, ma al contrario per farne emergere le componenti politico sociali che hanno guadagnato ad essa il consenso maggioritario dell’elettorato palestinese in una delle elezioni più democratiche che si ricordino in tutto il secondo dopoguerra? Dopo tanto inutile - sì inutile! - spargimento di sangue prodotto dalla logica ipersicuritaria e dal terrorismo, non si potrebbe almeno riprendere in considerazione la via del dialogo con tutti, invece di indossare le faccine del dolore e dell’indignazione che sui volti consumati dall’ipocrisia di certi politici italiani e non, fanno la mostra di un nasino all’insù sulla faccia lignea di Pinocchio?

Sappiatelo

Nandino Capovilla, referente nazionale per Pax Christi della Campagna Ponti e non muri, Bocche Scucite Voci dalla Palestina Occupata, 01/09/07. Le agenzie di stampa hanno perso un'altra occasione e non hanno battuto una notizia assai più rilevante degli scandalizzati giudizi dei nostri politici sulle sagge aperture di Prodi al dialogo con Hamas (leggi Moni Ovadia in HANNO DETTO). Ma dello 'scoop' se n'è accorta la città-fantasma di Hebron, che il 16 agosto ha visto una cinquantina di italiani infilarsi tra le case occupate dai coloni israeliani, riempire le moleskine di osservazioni e perfino contestare un gruppo di arroganti soldati entrati in moschea con le armi e con gli scarponi ai piedi. Non poteva passare inosservata questa lunga fila di “peace-builders” nonviolenti, 'armati' di macchine fotografiche e taccuini, per monitorare le pesantissime conseguenze umanitarie del sistema di occupazione. Certo non si potevano confondere con gli innocui e distratti turisti religiosi dei classici pellegrinaggi in Terra Santa! Ecco allora la notizia: cinquanta operatori di pace, attraverso le by-pass road o le strade secondarie, da Jenin a Hebron, hanno superato i check-point dell'esercito e il muro dell'apartheid, per raggiungere centinaia di esseri umani nei villaggi dimenticati della West Bank, per raccogliere il grido disperato di un intero popolo sull'orlo del disastro umanitario. Ma la vera notizia è che ognuno di loro -potete esserne certi!- non tacerà.

S
appiatelo: non taceremo e non indietreggeremo di un passo nella denuncia di ciò che abbiamo visto e ascoltato dal nord al sud di una terra violata fin dal 1948. Mostreremo e racconteremo della “pulizia etnica di centinaia di villaggi” (leggi l'intervista esclusiva allo storico israeliano Ilan Pappe in A VOCE ) attraverso il ricordo allucinante del Vescovo Chacour e l'allegria dei figli degli abitanti di Bar'am che da 42 anni organizzano un campo tra le case distrutte per non dimenticare la Nakba delle loro famiglie.(vedi la recensione di Blood Brothers in ABBIAMO LETTO).

Sappiatelo: siamo talmente disgustati dal quotidiano nascondimento della tragedia palestinese, che picconeremo, fino a demolirlo, il muro di falsità che avvolge crimini così pesanti. Non riusciranno a metterci il silenziatore, perchè abbiamo imparato il coraggio della denuncia da S., che a Qalqylia non ha obbedito all'altolà del soldato dalla torretta lungo il muro, insegnandoci un criterio-guida: “E noi non ci fermiamo!”

Sappiatelo: abbiamo voluto metterci in ascolto della società israeliana raggiungendo Sderot, concentrato della sofferenza di un popolo che continua ad essere ingannato e impoverito dai suoi governanti. Abbiamo compreso l'ansia di chi si sente minacciato dai razzi kassam e diventa -pur con una enorme sproporzione asimmetrica tra la forza occupante e quella del popolo occupato- rappresentazione viva della 'politica globale della paura': in Italia come in Palestina, in Israele come negli Usa, ad opera delle destre di ogni colore, la paura si è impossessata della gente. Ed essendo la questione sociale strettamente legata alla pace, la disastrosa situazione sociale israeliana è la cifra di quanto sia ancora distante una reale volontà di riprendere il processo di pace.

A pochi metri dalla più infernale prigione del mondo -Gaza- abbiamo immaginato come possano sopravvivere milioni di palestinesi in gabbia e fotografato la mongolfiera con cui l'esercito controlla ogni angolo della Striscia...

A pochi chilometri da lì, poi, abbiamo scoperto la città beduina di Rahat con la tristissima realtà dei 'villaggi non riconosciuti' da Israele.

Sappiatelo: non trascureremo di denunciare, insieme alla più intelligente e aperta società civile israeliana, questo piano di 'transfer' di migliaia di beduini del Negev, obbligati ad abbandonare i loro villaggi e le loro tradizioni per ammassarsi in nuovissime città dove si mette in pratica il principio: 'più arabi possibile in meno terra possibile'.

Questa silenziosa seminagione di giustizia, che si serve della passione e dell'impegno di tante e tanti pacifisti italiani, è la vera notizia per la pagina 'esteri' dei nostri media, appiattiti sul “dovere di sostenere Abu Mazen con armi e denaro”, cioè facendoci credere che la pace consista nel mettere palestinesi contro palestinesi, con “aiuti concreti” di armi a Fatah e ad Israele (30 miliardi di dollari dagli Usa!).

Sappiatelo: mentre l'occupazione militare più lunga della storia moderna sembra esser riuscita ad addomesticare i media, tante mail partite dai computer di quel piccolo gruppo di italiani, e racconti, serate e articoli stanno moltiplicando denunce e appelli alla mobilitazione...
Era sotto i nostri occhi lo stillicidio della colonizzazione che ha modificato irreparabilmente questa terra, i suoi villaggi e le sue case. Ma...

Sappiatelo: giovani e adulti di una ventina di città italiane sono stati accolti nelle abitazioni palestinesi minacciate dall'espansione 'naturale' degli insediamenti e questo numero aumenterà, nonostante tutti gli ostacoli, presidiando una resistenza popolare nonviolenta che -come dicono le nostre amiche di Ramallah- sta diventando “resilience”, cioè presa di coscienza realistica dell'apartheid in atto, lotta priva di rassegnazione per obiettivi sempre più significativi. Perché tutti i nostri amici ci hanno fatto comprendere che anche se sono costretti a piegarsi, non si lasceranno spezzare.

Sappiatelo: se questo dramma infinito si consuma da sessant'anni tutti i giorni, ogni venerdi, con ostinazione, si raccolgono israeliani, palestinesi e internazionali, in quattro luoghi diversi della Cisgiordania, per protestate con manifestazioni nonviolente: a Bil'in, dove ormai regolarmente si fa sentire la pesante repressione dell'esercito; lungo al muro di Betlemme in preghiera con le suore e i cristiani di diverse confessioni; davanti alla casa del Primo Ministro con i pacifisti israeliani di Bet'selem; oppure in un villaggio sfigurato dal muro, facendo volare sopra i soldati gli aquiloni dei ragazzini.(anche tu puoi protestare contro il muro: vedi in APPELLI)

Sappiatelo: nessuno può sfuggire alla corresponsabilità in questa devastazione annunciata. Non si tireranno indietro altri volontari che stanno già preparando lo zaino per la Palestina. Quelli di Pax Christi, intanto, l'hanno scritto sul muro: “Siamo tutti responsabili!” E la nostra denuncia allo Stato d'Israele non dimenticherà le pesantissime responsabilità dell'Europa e del nostro Paese.

C'è una possibilità. Concreta. E se anche avesse lo spessore di un sogno -sappiatelo- è di quelli diurni, che li vedi realizzarsi piano piano. Se la cinquantina di donne e uomini di quest'estate assicura che certo non tacerà, i 50 potranno diventare 500 e poi 5000, tutti con la stessa destinazione: la terra violata di Palestina.

Per ora stanno mettendo in subbuglio le loro città di provenienza, da Torino a Molfetta, da Firenze a Verona. E poi Roma e Milano, Venezia e Aosta...

Pensatela come volete, ma quest' abbondante seminagione, mentre il mondo discute di pace in medio oriente... è già stata realizzata.

E il grano della giustizia, che resiste da sessant'anni e cresce ostinatamente nella dura terra di Palestina, diventerà pane per un popolo affamato solo di pace.

Sappiatelo.

Nandino, 1 settembre 2007

nandyno@libero.it

Gazans Pray Outside, Defying Warnings by Hamas

Steven Erlanger, The New York Times, 01/09/07. Also on Friday, the Israeli military said that three children killed on Wednesday in northern Gaza by Israeli fire were not retrieving a rocket launcher, as first announced, but were simply playing tag nearby. The three young cousins — Mahmoud Ghazal, 10; Sara Ghazal, 10; and Yehiya Ghazal, 12 — became targets when they were seen near the empty launcher and touching it, the army said in a statement. It said that “at the very last second it was apparent that they were children, but it was impossible to stop the explosion.” The statement did not say whether they had been shot from the air or the ground. The army expressed regret, after first accusing Palestinian militants of using the children to retrieve the empty launchers. On Friday, it blamed the militants for having fired rockets from civilian areas. , as first announced, but were simply playing tag nearby. The three young cousins — Mahmoud Ghazal, 10; Sara Ghazal, 10; and Yehiya Ghazal, 12 — became targets when they were seen near the empty launcher and touching it, the army said in a statement. It said that “at the very last second it was apparent that they were children, but it was impossible to stop the explosion.” The statement did not say whether they had been shot from the air or the ground.

The army expressed regret, after first accusing Palestinian militants of using the children to retrieve the empty launchers. On Friday, it blamed the militants for having fired rockets from civilian areas.

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A l'est de Jérusalem, l'entrelacs de routes aménagées par les Israéliens compromet la viabilité d'un futur Etat palestinien

Benjamin Barthe, Le Monde, 01/09/07. Les négociations entre le président palestinien, Mahmoud Abbas, et le premier ministre israélien, Ehoud Olmert - qui se sont rencontrés une nouvelle fois, mardi 28 août - n'impressionnent visiblement pas le ministère israélien des transports : sur le terrain, ses pelleteuses et ses géomètres façonnent pour la Cisjordanie un avenir aussi éloigné que possible d'un quelconque accord de paix.


D'après un rapport de l'organisation pacifiste israélienne La Paix maintenant, publié lundi 27 août, 315 millions de shekels (55 millions d'euros) ont été investis cette année dans la construction de six routes destinées à relier au territoire israélien des colonies situées à l'est de la "barrière de séparation", donc promises à la démolition dans la logique d'un accord de paix. L'un des chantiers prévoit notamment de connecter à Jérusalem quatre implantations du sud de Bethléem : Tekoa, Asfar, Maale Amos et Nokdim, lieu de résidence d'Avigdor Lieberman, le ministre des affaires stratégiques, chef du parti d'extrême droite Israël Beitenou. "Cette route doit lui permettre de rejoindre son bureau d'une seule traite, sans croiser le moindre indigène", raille l'avocat israélien Dany Seideman, fondateur de l'association Ir Amim, qui travaille à une meilleure entente entre Juifs et Arabes dans la Ville sainte.

Les plans du ministère des transports prévoient également l'élargissement de la route d'accès à Ariel, l'une des colonies les plus peuplées de Cisjordanie, ainsi que de l'artère Jérusalem-Jéricho, fréquentée par les colons de la vallée du Jourdain. Les nouveaux ouvrages ainsi créés s'ajouteront à la trentaine de routes préexistantes, d'une longueur de 350 km, interdites de façon partielle ou intégrale aux Palestiniens.

La version officielle, selon laquelle ces investissements ne sont motivés que par des questions de sécurité, est contestée par le géographe palestinien Khalil Toufakji. "Le gouvernement israélien veut créer deux Etats à l'intérieur de la seule Cisjordanie, affirme-t-il : un pour les colons qui disposeront d'infrastructures leur permettant d'être de facto assimilés à Israël ; et un autre pour les Palestiniens qui sera constitué de cantons isolés les uns des autres. Comme durant le processus de paix, les belles paroles prononcées devant les médias sont en décalage complet avec la réalité sur le terrain."

COUPURE NORD-SUD

En réponse à cette critique, l'Etat juif dit travailler également à la "continuité" territoriale dont le président américain George Bush a fait l'un des prérequis du futur Etat palestinien. De fait, divers chantiers ont été lancés pour désenclaver au moyen de ponts ou de tunnels les poches d'habitations créées par la barrière de séparation. A l'est de Jérusalem, une rocade est également en cours de construction dans le but d'accélérer le trafic entre Ramallah et Bethléem. L'un des tronçons sera ouvert aux automobilistes israéliens, qui seront séparés de leurs homologues palestiniens par un mur érigé au milieu de la chaussée.

Signe que la viabilité du futur Etat palestinien n'est pas le principal souci des planificateurs, l'échangeur pour accéder à Jérusalem ne sera ouvert qu'aux Israéliens. Un choix éloquent, selon Dany Seideman : "Olmert poursuit l'oeuvre de Sharon, qui avait imaginé le concept de continuité par les transports pour répondre aux inquiétudes de la Maison Blanche, tout en continuant à construire des colonies."

A l'est de Jérusalem, en l'occurrence, le gouvernement espère pouvoir bâtir la zone dite "E1", un ensemble de collines pelées qui s'étendent entre la partie arabe de la Ville sainte et l'immense bloc de colonies de Maale Adoumim. Pour les Palestiniens, la mise en oeuvre de ce projet sonnerait le glas de leur rêve d'Etat, car il promet d'accentuer la coupure nord-sud de la Cisjordanie et d'isoler celle-ci de Jérusalem-Est, dont ils veulent faire leur capitale.

"La route Ramallah-Bethléem est la réponse du gouvernement à ces critiques, dit Dany Seideman. Elle lui permet de dire aux Américains : "Regardez, même avec E1, les Palestiniens circulent librement." La continuité nord-sud ainsi créée aura la largeur de la route : 16 mètres, ni plus ni moins. Abba Eban (un ex-diplomate israélien) disait que les hommes politiques ne se mettent à agir intelligemment que lorsqu'ils ont épuisé toutes les alternatives, conclut Dany Seideman. Visiblement, nous n'y sommes pas encore."

Benjamin Barthe
Article paru dans l'édition du 01.09.07.

venerdì 31 agosto 2007

Five children in one week. Israel must not behave like a terrorist organization

Haaretz Editorial, 31/08/07. Three Palestinian children were killed by Israeli fire in the northern Gaza Strip on Wednesday. The three were cousins from the al-Ghazale family - Yihiye, 12, Mahmoud, 10, and Sara, 10. The Israeli public reacted to these killings, just like it did to the killing of two other children several days earlier, with near complete apathy. It might as well be an act of god, or an acceptable price that balances out the frustration at the continued Qassam rocket attacks. This indifference is dangerous because it does not encourage greater care in identifying targets. The automatic expressions of sorrow by government officials, and the argument that "the terrorists organizations send children deliberately to places where they become targets," does not suggest that anyone is attempting to learn the necessary lessons from the mistakes. This is all the more true when the targets are in areas housing civilians, and the risk is known in advance. Israel cannot behave like a terrorist organization that targets civilians, even when the shooting comes in response to an attack. After all, this is the main reason why Israel is encouraging the boycott of Hamas the world over.

There is no dispute over the fact that the children were killed near rocket launchers. However, the people near rocket launchers are usually civilians, and not the operating crews. The crews operating the launchers do so from a distance, and later they send others, including children, to collect the launchers for further use. Even though the Palestinians claim that the children cannot lift such launchers because they are too heavy, the Israel Defense Forces thinks otherwise. It believes the launcher is light and the rocket is heavy, and therefore launchers can be collected by children.

The Qassam rocket attacks against Sderot and the other communities bordering the Gaza Strip are fully controlled by Hamas, and can no longer be attributed to rogue, undisciplined gangs. Hamas subcontracts other groups and provides them with rockets, while it concentrates on the more "respectable" task of attacking military targets, but it is Hamas that controls the entire gamut of activities.

Faced with the continued rocket attacks, which are showing no signs of abatement in spite of the ground incursions and the killings from the air, the IDF has no proven means of minimizing the fire. The killing of Palestinian children is certainly not contributing to the safety of the children in Sderot, but rather only increases the urge to avenge their deaths and to harm children on the other side.

Were it possible to distinguish between Israel's attitude toward the Palestinians in the West Bank and those living in the Gaza Strip, and were it clear to the Palestinians that in places where there is less terrorism, Israel takes a more considerate attitude toward the civilians, then maybe they would understand that ending the attacks is worthwhile. While there are signs that the atmosphere in the West Bank is changing - the rescue of an IDF officer by Palestinian security forces is an expression of this - but talk of making the daily life of civilians easier by decreasing the number of roadblocks has, for now, proven to be empty words.

Shameless

Osamah Khalil, The Electronic Intifada, 31/08/07. To prepare the ground for this confrontation, the PA leadership has embraced the siege of Gaza. This strategy reached a new nadir when Ambassador Riyad Mansour of the Palestinian Observer Mission to the UN recently blocked an attempt by Qatar and Indonesia to obtain a Security Council resolution expressing concern over a pending humanitarian crisis in Gaza. Mansour explained in a prepared statement that "It is unacceptable for anyone, including friends, to act on our behalf without our knowledge, without consulting us." When asked why the Palestinians did not coordinate with its "friends" to reintroduce the resolution, he answered that there was "no specific need" for one at this time, in spite of the dire warnings from multiple international aid organizations to the contrary. The diplomatic corps, which operates from the former Palestine

Palestinian President Mahmoud Abbas meets
with
the Israeli Prime Minister Ehud Olmert
in Jerusalem 28 August 2007.
(Omar Rashidi/MaanImages/POOL)

Liberation Organization missions around the globe, purportedly represents the Palestinian people, but their recent actions and rhetoric culminating in the disgraceful charade perpetrated at the UN demonstrates where their loyalties truly lie.

Moreover, Mansour's statement of "no specific need" is as shockingly inaccurate as it is despicable. Gaza is one of the most densely populated places in the world, with nearly 1.5 million Palestinians -- roughly 80 percent of them refugees -- crowded into a mere 360 square kilometers. With unemployment of 40 percent and underemployment far higher, the UN estimates that over 60 percent of Palestinians live below its "poverty line" of less that two dollars a day. Gaza has no functioning sea or airport facilities and all human and commercial traffic flows through Israeli-controlled (and sealed) border crossings, rendering it totally isolated. Due to the border closures, there are constant shortages of medical and food supplies, and now fuel supplies are also being used as a weapon, forcing electricity to be shut off across the strip for hours and sometimes days at a time. These actions represent a continuation of the siege and sanctions policy promoted by Abrams. As Dov Weinglass, an adviser to Israeli Prime Minister Ehud Olmert, explained the goal is to "put the Palestinians on a diet, but not to make them die of hunger." By adopting this strategy as their own, Abbas and Fayyad have demonstrated they are beyond redemption.

With each passing day the depth of the PA leadership's degeneracy is revealed. Their corruption and ineptitude, so blatant and glaring over the past 13 years, has now been supplemented by a cynicism and sadism directed toward their own people with the support and encouragement of the US, Israel, the European Union, and the international community. This leadership, which once proclaimed "revolution until victory," long ago abandoned that mantra and chose to turn rebellion into money. They have shamelessly ignored the needs and will of the Palestinian people and led them to the brink of ruin. Only by abandoning this leadership can Palestinians hope to reverse this course and ensure that they determine their own future. The choice has never been starker or more certain.

Osamah Khalil is a Palestinian-American doctoral candidate in US and Middle East History at the University of California, Berkeley, focusing on US foreign policy in the Middle East. He can be reached at okhalil@berkeley.edu.

Does Israel Really Want To Strengthen Abbas?

M. J. Rosenberg, Israel Policy Forum, 31/08/07. Any deal that is perceived as a device to empower Fatah while cutting out its opponents will be blown up, literally, by Hamas and others. The name of the game should be empowering Abbas by reaching a deal with him that Hamas will feel pressured by Palestinians to support. The only way to be rid of Hamas is to truly empower Abbas, without making him look like he is, as one Hamas spokesman put it, the Israeli government minister in charge of Palestinian affairs.

A good deal allows each party to feel (rightly or wrongly) that it is a winner. The sure recipe for failure is to use an agreement as a bludgeon against a party whose opposition would kill it. Does Israel really want Abbas to succeed or, as in the past, is it satisfied using Hamas as a pretext to avoid dealing with the issue of borders, settlements and Jerusalem for another generation? We'll know soon.




Palestine : Une fragmentation programmée

Silvia Cattori, 27/08/07. Julien Salingue, doctorant en Science Politique à Paris, militant du mouvement de solidarité avec la Palestine, co-réalisateur du film SAMIDOUN, fait ici un bilan de la situation qui s’est développée depuis la mise en déroute à Gaza des forces du Fatah financées par la CIA et le coup d’Etat de M. Abbas à Ramallah. Il souligne notamment la fragmentation de plus en plus accentuée du territoire palestinien et ses conséquences politiques.

Silvia Cattori
: Vous revenez de trois semaines en Cisjordanie. Qu’avez-vous observé que l’on ne comprend pas d’ici et qui vous a particulièrement frappé ?

Julien Salingue : La situation est assez difficile à comprendre de l’extérieur mais elle est également difficile à comprendre sur place. La première impression est que la fragmentation entre les villes est de plus en plus forte ; elle n’est pas seulement géographique, elle est politique et elle est profondément ancrée dans la tête des Palestiniens. Les différences entre villes sont très importantes.

Dans les villes du nord, à Jénine et Naplouse par exemple, la situation générale est très dure à vivre pour la population ; il y a chaque nuit des opérations de l’armée israélienne, des tirs, des combats, des arrestations, des victimes.

Dans les villes du sud, à Bethléem et Hébron, la situation est plus calme, même s’il s’agit d’un calme relatif.

À Ramallah, on a une situation particulière : on assiste plutôt à une démonstration de force de l’Autorité palestinienne, avec une présence policière et militaire palestinienne très visible dans les rues, qui crée un climat très étrange, très différent de celui des autres villes.

Au total, on retire l’impression d’une très grande fragmentation, avec des situations très différentes d’une ville à l’autre et des rapports entre les différentes organisations politiques également très différents selon les villes, selon les villages et selon les camps de réfugiés.

Il y a de moins en moins d’unité en Cisjordanie. Cette situation n’est pas nouvelle mais elle s’est accentuée. Après ce qui s’est passé à Gaza, les rapports entre le Fatah et le Hamas se sont tendus dans beaucoup d’endroits, ce qui a conduit les gens appartenant à des organisations politiques à se positionner. Et les positions ne sont pas nécessairement les mêmes selon les endroits et selon le rapport de force entre les partis.

Dans les villes où le Fatah est historiquement fortement implanté, notamment à Naplouse, le Hamas affiche une certaine discrétion et, même s’il y a des incidents, il y a plus ou moins cohabitation entre les partis.

Mais dans les villes où le Hamas est majoritaire, comme à Hébron, il n’y a pas dans les rues de présence militaire des forces liées au Fatah, et pas de démonstrations de force comme à Ramallah où, là, elles sont quasiment les seules et veulent montrer que c’est elles qui dirigent.

Les choses se présentent donc différemment d’une ville à l’autre.

Silvia Cattori : Dès mi-juin on a vu des bandes se revendiquant du Fatah s’en prendre à des militants du Hamas, à Naplouse et à Hébron notamment. S’agissait-il d’une chasse à l’homme systématique ou ponctuelle ?

Julien Salingue : Il est assez difficile de savoir qui sont les groupes qui ont mené des opérations contre des résidants et des militants du Hamas. Cela ressemble à ce qui s’est passé à Gaza durant les mois qui ont précédé la mise en échec des forces du Fatah. Il est difficile de savoir s’il s’agit de membres du Fatah, de groupes armés issus ou proches du Fatah, ou de groupes armés qui agissent de leur propre initiative.

Il y a eu des incidents graves, comme à l’Université de Naplouse, où un étudiant du Hamas a été tué, mais cela reste localisé. On n’est pas entré, en Cisjordanie, dans une situation d’affrontement conduisant à des batailles rangées entre Fatah et Hamas. Dans ce contexte de fragmentation, il me semble que ces incidents ont aussi des origines locales.

On m’a dit qu’à Naplouse, par exemple, les incidents ont été provoqués par des rivalités entre groupes issus du Fatah. Comme il n’y a pas vraiment de directives, le chaos règne et de petits chefs locaux émergent ; ils tentent de tirer profit de la situation pour asseoir leur pouvoir et avoir un contrôle sur tel secteur d’un camp de réfugiés ou tel quartier d’une ville.

Silvia Cattori : Les ordres donnés par le Président Mahmoud Abbas, le 16 juin, d’arrêter les gens du Hamas et de désarmer la résistance ont-ils été suivis d’effets ?

Julien Salingue : Il faut faire la distinction entre les déclarations d’Abbas et ce qui a réellement été fait. Il y a eu effectivement des arrestations. Mais je pense qu’il s’agissait surtout d’une vitrine destinée à montrer aux Etats-Unis, à Israël, à Tony Blair, ce qu’ils veulent voir, de façon à pouvoir leur dire : « Vous voyez, on fait ce que vous nous demandez, on va les désarmer ».

A Hébron, par exemple, il est impossible au Fatah de se risquer à aller désarmer le Hamas alors qu’il « contrôle » la ville. Il faut se rappeler que, dans la totalité des grandes villes de Cisjordanie, les élections municipales d’il y a deux ans ont été remportées par le Hamas. Le Hamas a une implantation à la fois politique et sociale qui lui permet de se prémunir vis-à-vis du Fatah contre des tentatives de désarmement général.

De la part de Salam Fayyad ou de Mahmoud Abbas, je pense qu’il y a beaucoup de discours, suivis seulement de quelques actions destinées à montrer qu’ils font ce que les Etats-Unis et Israël attendent d’eux, mais il n’y a pas eu d’opération de grande ampleur de liquidation du Hamas à l’échelle de la Cisjordanie. Cela ne signifie pas que Fayyad et Abbas ne veulent pas cette liquidation ; simplement, ils ne peuvent pas la réaliser aujourd’hui et, surtout, ils ne peuvent pas la réaliser sans l’aide d’une intervention extérieure.

Silvia Cattori : La lecture de comptes-rendus évoquant la situation en Cisjordanie m’a semblé moins rassurante. N’est-il pas vrai que des gens reconnus comme étant membres du Hamas, vivent maintenant dans la crainte d’être arrêtés, ou tués ?

Julien Salingue : Ceux qui sont reconnus comme militants du Hamas se cachaient déjà, parce qu’Israël les recherchait déjà auparavant. Quant aux dirigeants ou militants du Hamas un peu connus localement, je pense qu’ils ont pris des précautions. Ils font plus attention à leurs déplacements parce qu’il est tout à fait possible que l’Autorité palestinienne en fasse arrêter un certain nombre pour donner des gages aux Israéliens.

Je n’ai pas l’impression qu’il y ait, chez les gens du Hamas, une peur particulière d’être arrêtés par les gens du Fatah. Par contre il y a, chez pas mal de gens que nous avons rencontrés - qu’il s’agisse de militants politiques associatifs ou de non militants - une crainte à l’égard des nouveaux groupes armés de la police et des nouveaux services de sécurité de l’Autorité palestinienne qui agissent de manière incontrôlée. Les gens ont peur de ces forces là, ils ont peur des check points improvisés que des gens se réclamant du Fatah mettent en place dans les villes. On ne sait pas qui sont ces gens qui contrôlent les pièces d’identité des passants, qui contrôlent les voitures ; le fait est que cela instaure un climat de méfiance entre Palestiniens.

Silvia Cattori : Les Palestiniens qui ont voté Hamas, et qui voient maintenant M. Abbas remis en selle et se conduire à l’égard des Palestiniens à Gaza avec la même brutalité qu’Israël, restent-ils solidaires du Hamas ? Ou bien se montrent-ils indifférents ?

Julien Salingue : Ce qui est certain, c’est que les gens ne sont pas indifférents. Mais Gaza est très loin pour les habitants de la Cisjordanie ; c’est très loin dans leurs têtes, mais aussi géographiquement.

Il faut en effet se rappeler que, depuis sept ans, aucun habitant de Cisjordanie n’a pu se rendre à Gaza. C’est toujours le cas, à l’exception de responsables de l’Autorité liés à Abbas. Il y a un an, au moment des élections, on disait que le vote des Palestiniens n’était pas un vote d’adhésion au Hamas, qu’il ne s’agissait pas d’un soutien inconditionnel à la direction du Hamas et à son programme politique et social. Cela se vérifie : les gens disent qu’il y a eu des erreurs y compris de la part du Hamas. Mais, même s’il n’y a pas eu une solidarité inconditionnelle vis-à-vis du gouvernement Haniyeh, je n’ai entendu personne me dire qu’il considérait le gouvernement d’urgence instauré par Abbas et dirigé par Fayyad comme légitime et comme une chose positive.

Même si c’est une perspective très éloignée, il apparaît clairement que, pour la majorité des gens, la seule possibilité envisageable est de retrouver une unité. Je ne parle pas d’une unité entre Fayyad et Haniyeh, mais d’une unité entre cadres et militants du Hamas et cadres et militants du Fatah et d’autres organisations ; que ces cadres se mettent à travailler ensemble et comprennent que ce n’est pas en se tirant dessus qu’ils vont régler les problèmes de la population.

Les gens ne mettent pas sur le même plan le gouvernement d’Haniyeh et le gouvernement de Fayyad. Le gouvernement issu des urnes, et qui est considéré comme légitime, reste le gouvernement d’Haniyeh. Mais, comme ce dernier a été empêché de gouverner et qu’il n’a pu rien accomplir depuis son arrivée « au pouvoir » il y a un an et demi, le fait qu’il ait été renversé et remplacé par le gouvernement de Fayyad n’a rien changé à la vie quotidienne de la population de Cisjordanie.

Il faut comprendre que, pour la très grande majorité des Palestiniens, que ce soit en Cisjordanie ou à Gaza, le plus urgent est de se battre pour améliorer leur quotidien.

Malheureusement, même si le message envoyé par le vote en faveur du Hamas était clairement : « On ne capitulera pas, on vote pour celui qui incarne la résistance », ce vote n’a pas permis aux Palestiniens d’améliorer leurs conditions de vie ni de se rapprocher d’une solution politique qui répondrait à leurs aspirations.

On perçoit un grand ressentiment vis-à-vis de l’Autorité palestinienne de Ramallah, un mépris pour ces dirigeants qui s’enrichissent sur leur dos et sont davantage soucieux de plaire à Bush et à Olmert qu’à leur propre peuple. Ce mépris s’est accentué et a amené les gens au dégoût de la politique et à penser que rien n’est possible aujourd’hui.

Silvia Cattori : La situation semble être devenue très difficile pour les Palestiniens. Ils avaient voté Hamas parce qu’ils avaient déjà trop souffert du Fatah et ces gens sont de retour, plus que jamais de connivence avec l’occupant, et se conduisent finalement comme des dictateurs ! C’est tout de même une cruelle situation !?

Julien Salingue : Au moment des événements de Gaza, le 15 juin, certains ont dit que le Hamas avait fait un coup d’Etat, ce qui est quand même assez « drôle » quand on y pense ! Comment le parti majoritaire et le gouvernement auraient-ils pu faire un coup d’Etat contre eux-mêmes ?

S’il y a eu coup d’Etat, c’est de la part d’Abbas et de son groupe du Fatah soutenu par Israël et les grandes puissances. On peut parler d’une tentative de coup d’Etat de leur part, une tentative qui avait d’ailleurs commencé dès le lendemain de la victoire électorale du Hamas.

Le fait que les fonds étrangers aient été suspendus, le fait qu’une partie du Fatah se soit employée à empêcher le gouvernement Hamas de gouverner, le fait que les courants les plus radicaux (dans le mauvais sens du terme) du Fatah se soient employés à empêcher la mise en place d’un gouvernement d’union nationale, tout cela visait à préparer un coup d’Etat permettant de ramener au pouvoir, d’une façon ou d’une autre, ces gens du Fatah qui avaient perdu les élections.

Ils ont voulu renverser les dirigeants du Hamas à Gaza ; ils ont échoué et, maintenant, ils tentent de réussir leur coup en Cisjordanie. Peut-on parler d’une dictature ? Une dictature se matérialiserait par un réel contrôle social et politique dans toute la Cisjordanie. Or, en réalité, les gens du Fatah ne contrôlent rien en Cisjordanie. Ce sont les Israéliens qui contrôlent tout. Ce sont eux qui donnent les ordres, ce sont eux qui contrôlent les routes et l’entrée des villes, ce sont eux qui décident qui a droit de sortir de Palestine et d’y entrer, ce sont eux qui décident quels prisonniers seront libérés.

Il y a des Palestiniens qui, aujourd’hui, vous disent : « Voilà, à Ramallah, il y a une zone verte comme à Bagdad ». Le seul endroit où le gouvernement peut gouverner, c’est en effet à la Mokata. [1] Mais cela ne correspond à aucun pouvoir.

Silvia Cattori : Comme vous le dites, c’est l’occupant israélien qui commande. Mais n’est-ce pas un coup très dur pour la population palestinienne que de voir leurs autorités trahir, collaborer ouvertement avec Israël et les Etats-Unis, s’associer à leurs « punitions collectives » ?

Julien Salingue : En effet. Que les occupants israéliens ne fassent rien pour aider les Palestiniens n’est pas une surprise, mais de voir que des Palestiniens –Abbas et son équipe- agissent contre les intérêts du peuple palestinien, c’est une autre affaire : c’est pitoyable et révoltant.

Au vu du rapport de force sur le terrain, entre le peuple palestinien d’une part et l’Etat d’Israël avec son armée d’autre part, il est évident que ce dont les Palestiniens ont le plus besoin, ce n’est pas de dirigeants politiques qui leur répètent « il faut négocier, il ne faut pas résister ». Ce dont ils ont besoin, c’est de refonder la résistance, de repenser leur unité, leur projet politique, leur projet national, leur projet de lutte.

Or, la politique menée actuellement par Mahmoud Abbas a comme conséquence d’empêcher la refonte du projet national, d’empêcher, à moyen terme, toute reprise de la lutte, toute réorganisation de la résistance et d’émancipation des Palestiniens.

Cela étant, on ne peut pas dire que l’ennemi principal des Palestiniens soit l’Autorité palestinienne de Ramallah. Car, sans Israël, cette autorité n’existerait pas. Cette autorité n’a aucune légitimité auprès du Peuple palestinien. Elle a besoin d’Israël, de s’appuyer sur lui, pour être reconnue internationalement. Elle dépend également de l’argent de l’étranger pour subsister. L’ennemi principal demeure Israël.

Pendant les négociations d’Oslo et la mise en place du « processus de paix », certains pensaient que l’Autorité palestinienne avait une stratégie de conciliation, mais avec une perspective d’émancipation.

Or, aujourd’hui, il est plus clair que jamais que l’Autorité palestinienne n’a aucune perspective d’émancipation, aucune perspective de lutte contre l’occupant. La capitulation totale de la population palestinienne est la seule chose que vise l’Autorité palestinienne pour parvenir à « gouverner » une espèce de micro Etat, et y faire des « affaires ».

Silvia Cattori : Israël n’a-t-il pas de quoi se réjouir ? Non seulement il est soutenu par les grandes puissances mais, comble de l’absurde, il est soutenu, dans sa volonté d’écrasement de la résistance, par l’Autorité palestinienne ! Peut-on dire qu’Israël a gagné sur toute la ligne ?

Julien Salingue : Oui, le projet sioniste dans son ensemble se porte plutôt bien et il avance. Mais dire qu’Israël a gagné sur toute la ligne, non. On n’en est pas encore là. Abbas ne pourra pas, pendant des mois, faire semblant de ne pas vouloir discuter avec le Hamas. Car le Hamas est une force sociale et politique qui existe ; Abbas ne pourra pas la contourner. Il parle d’organiser des élections anticipées ; mais comment pourrait-il organiser des élections anticipées à Gaza sans obtenir l’accord du Hamas ? Ce n’est pas possible.

On ne peut pas ignorer Gaza. Si des élections devaient se tenir seulement en Cisjordanie, les Palestiniens ne les considéreraient pas comme légitimes. Et, même si elle voulait organiser des élections seulement en Cisjordanie, l’Autorité palestinienne ne pourrait pas ignorer le Hamas.

Si l’un des objectifs de l’Autorité palestinienne est de liquider le Hamas et de permettre à Abbas et à ses amis de gouverner seuls, cet objectif n’est pas encore atteint. Le seul moyen qui permettrait de l’atteindre serait une invasion militaire israélienne de grande ampleur à Gaza et un grand massacre.

Ce qui nous permet de dire qu’Israël n’a pas gagné « sur toute la ligne » c’est que, bien que désillusionnés et pas très optimistes quant à leur avenir et leur cause nationale, les Palestiniens sont toujours là. Quoi qu’Israël fasse les gens ne partiront pas.

Or, le projet sioniste est de les chasser ou, au moins, de les confiner dans de petits bantoustans. La population palestinienne n’a pas capitulé. Elle se trouve à un moment très difficile de sa lutte, le niveau de résistance est assez faible, mais cela ne signifie pas que les gens aient abandonné la perspective de se battre pour leurs droits ; ils n’abandonneront pas.

La situation est dure, chaotique, sans perspectives concrètes et rassurantes, mais l’espoir existe encore.

Silvia Cattori : Reste que les autorités du Hamas ne sont pas parvenues à desserrer le blocus. Et que leurs appels au dialogue et à une gestion unie sont restés sans réponse ?

Julien Salingue : Les gens du Hamas sont dans une situation d’isolement complet. Ils sont obligés de montrer qu’ils sont ouverts, prêts à la discussion, prêts à partager le pouvoir. Depuis leur élection, ils se sont toujours montrés ouverts, disposés à discuter d’une plate-forme nationale et d’un gouvernement d’union nationale. Ils n’ont pas d’autre choix. À Gaza, la situation est complètement intenable.

Du côté du Fatah, le courant qui refusait tout dialogue avec le Hamas et qui était prêt à en découdre militairement, a momentanément échoué. C’est le courant de Dahlan. Cela ne signifie pas que, demain, Abbas va discuter avec le Hamas et aller dans le sens de l’unité. Il refuse toute discussion avec eux. Mais l’Autorité palestinienne sera obligée de discuter. Fayyad est Premier ministre alors qu’il n’a obtenu que 2% des voix aux législatives ! C’est une plaisanterie ! Si elles veulent avoir une quelconque légitimité, les autorités de Ramallah devront discuter avec les dirigeants du Hamas.

Silvia Cattori : La chape de plomb n’est donc pas totalement tombée ?

Julien Salingue : Non, pas encore. Dans cette situation, une des tâches de la solidarité internationale est d’exiger la fin du blocus diplomatique du Hamas. La fin du blocus doit être aujourd’hui une des principales revendications. Quoi que l’on pense du Hamas et de son projet politique, le blocus du Hamas ainsi que le soutien exclusif à Abbas et Fayyad, desservent gravement les intérêts du Peuple palestinien.

Silvia Cattori : Le silence des représentants palestiniens de l’OLP et des représentants palestiniens auprès de l’ONU ne vous a-t-il pas étonné ? Ils n’ont nullement condamné la reprise en main par M. Abbas et ils ont soutenu le blocus de Gaza. Leur attitude présente n’explique-t-elle pas leur soumission d’hier aux « processus de paix » états-uniens, qui pourtant ruinaient la cause palestinienne ?

Julien Salingue : C’est même beaucoup plus qu’un soutien. La direction de l’OLP (Organisation de libération de la Palestine) a même voté, avant qu’Abbas ne la propose, l’idée qu’il fallait destituer le gouvernement et organiser des élections anticipées. Cela n’est pas surprenant. Qu’est-ce que l’OLP aujourd’hui ? A part un rôle de représentation, un lieu où Abbas, à l’occasion d’un banquet, fait passer pour légitimes des décisions illégitimes, prises uniquement par l’Autorité palestinienne, l’OLP ne représente pas grand-chose.

Silvia Cattori : Mais ces représentants palestiniens, ces diplomates, présents dans toutes les instances internationales et accueillis à bras ouverts dans les manifestations des mouvements de solidarité n’en ont pas moins donné la ligne à suivre jusqu’ici ?

Julien Salingue : Le problème est que, depuis les « Accords d’Oslo » et la constitution de l’Autorité palestinienne sur la base de l’idée que l’Etat palestinien était en construction, les représentants de l’OLP sont devenus, dans les faits, les représentants de l’Autorité palestinienne. C’est elle qui les paye. Comme leur source de revenus dépend de ces Autorités palestiniennes qui viennent de faire un coup d’Etat et qui n’ont jamais voulu reconnaître le résultat du scrutin qui a porté le Hamas au pouvoir, il n’est pas surprenant qu’ils ne les condamnent pas et qu’ils les soutiennent implicitement.

Silvia Cattori : Le mouvement de solidarité s’est majoritairement égaré au cours de ces dernières années si cruciales pour le peuple palestinien ! Mais, maintenant, pour tous ces braves gens qui découvrent que cette « Autorité » avec laquelle leurs associations travaillaient, trahissait le peuple qu’ils voulaient aider, la déception doit être immense ! Les leaders du mouvement qui ont soutenu cette ligne erronée, savaient-ils ce qu’ils faisaient ?

Julien Salingue : Pour comprendre ce qui s’est passé, et qui se poursuit, il faut faire un bilan critique de ce que les « Accords d’Oslo » ont signifié et de l’attitude du mouvement de solidarité depuis cette période là, ainsi que de son soutien inconditionnel et acritique à l’égard de la direction de l’Autorité palestinienne.

Le problème n’est pas seulement d’avoir soutenu des gens corrompus qui, pour certains d’entre eux, collaboraient directement avec les services israéliens. Le problème c’est d’avoir semé des illusions dans la tête de ceux qui voulaient soutenir les Palestiniens et qui se sentaient proches de leur lutte de libération.

De leur avoir dit : « Voila c’est la paix, on est engagé dans un processus de paix, les Accords d’Oslo vont mener les Palestiniens à l’indépendance ». On peut voir aujourd’hui où ce genre de propos a conduit. On voit que nombre de militants ont cessé d’agir car ils n’ont plus envie de soutenir des autorités dont ils ont découvert ce qu’elles étaient réellement et le tort qu’elles ont fait au peuple palestinien durant ces années là.

La solidarité, c’est bien sûr l’action que l’on mène à l’étranger, mais ce sont aussi les liens que l’on tisse avec les associations et la population palestinienne. Aussi, le fait d’avoir apporté un soutien financier à des gens très corrompus a grandement décrédibilisé l’idée que l’on se faisait d’une solidarité avec la population palestinienne.

Il y a une critique à mener impérativement. Les responsables politiques ne peuvent pas continuer de dire aux gens qu’« Abbas est l’héritier d’Arafat, qui était lui-même l’héritier du combat pour l’indépendance ». Il faut faire un bilan critique, aller voir ce qui se passe sur le terrain, soutenir les actions des militants qui essayent de lutter contre la destruction de la société palestinienne en luttant contre l’individualisme et en redonnant son sens à l’action collective, en reconstruisant la conscience nationale.

Silvia Cattori : Nous en serions donc à un moment de vérité salutaire ?! Mais pourquoi avoir soutenu, hier, les Autorités corrompues de Ramallah ? Les responsables du mouvement de solidarité qui ont prôné ce soutien ne devraient-ils pas avoir l’élégance de se retirer ?

Julien Salingue : Il est nécessaire de poser les questions politiques de fond sans stigmatiser. Que signifie aujourd’hui l’Autorité palestinienne ? Que signifie aujourd’hui la revendication d’un Etat palestinien indépendant en Cisjordanie ?

Pour moi, cela ne veut absolument rien dire. L’Autorité palestinienne est un pseudo gouvernement qui, de fait, ne contrôle rien du tout, qui n’a aucune souveraineté politique, économique, géographique, qui ne fait rien du tout. Continuer de parler du « futur Etat palestinien indépendant », et de l’Autorité palestinienne comme d’un « gouvernement représentatif légitime » ne fait que perpétuer l’illusion que, du côté palestinien, il y aurait des institutions en construction, il y aurait des étapes franchies en direction d’un Etat indépendant, alors que, sur le terrain c’est tout le contraire qui se passe.

La situation aujourd’hui se résume à ceci : il y a d’un côté Israël et ses alliés issus du camp palestinien d’Abbas, et il y a de l’autre côté la population palestinienne. La lutte est entre les deux. Il n’y a pas d’appareil d’Etat ni d’institutions indépendantes à défendre. Mis à part le fait que ces institutions financées par l’impérialisme emploient des gens, des salariés, elles n’ont aucune réalité. Rien n’indique qu’il y aurait un Etat en construction. Il faut tirer au clair toutes ces questions dans le mouvement de solidarité, et aider les Palestiniens à reconstruire leur résistance.

Silvia Cattori : Croyez-vous vraiment que le mouvement de solidarité peut faire son autocritique et repartir sur de bons rails ?

Julien Salingue : Oui. Je pense que ce qui s’est passé était lié, d’une part à des illusions, et d’autre part à une incompréhension de ce qui se passait sur le terrain. C’est aussi le résultat d’affinités particulières entre une partie du mouvement de solidarité et certaines composantes du mouvement national palestinien qui sont arrivées au pouvoir après les « Accords d’Oslo ».

Cela permet de comprendre pourquoi il y a eu une si mauvaise orientation du mouvement de solidarité et pourquoi ses responsables ont entretenu la confusion en accréditant l’idée que, depuis les « Accords d’Oslo », le combat des Palestiniens consistait à construire leur Etat. Comme si, en fait, l’occupation, les arrestations, les camps de réfugiés, tout cela était terminé, et que la seule tâche utile était d’aider ces Autorités qui « voulaient construire leur Etat ». Cela n’a fait que semer des illusions ; alors qu’il suffisait d’aller sur place pour comprendre qu’il n’y aurait jamais d’Etat palestinien en Cisjordanie.

Silvia Cattori : Dans ce contexte, quelles sont les perspectives politiques ? Assiste-t-on à une radicalisation ou à une dépolitisation ?

Julien Salingue : La dépolitisation a déjà commencé depuis longtemps, notamment depuis les « Accords d‘Oslo ». Les militants politiques, particulièrement du Fatah, sont devenus des fonctionnaires intégrés à l’« appareil d’Etat », ils se sont investis dans des ONG ou sont devenus des salariés de l’Autorité palestinienne. Ils ont arrêté de faire de la politique et ont renoncé à construire la résistance. Cela a entraîné une dépolitisation importante.

Ainsi, au niveau de la société, il y a un vide politique et une perte de repères. Beaucoup de gens souhaitent faire quelque chose de neuf, mais sans savoir qui peut le faire, ni sur quelle base, quel programme, quelle plate-forme.

C’est dans ce sens là qu’il y a dépolitisation ; dans la mesure où il y a une perte de légitimité de la politique et du politique. Néanmoins, en même temps, la conscience politique et la conscience nationale existent encore.

Mais si cette dépolitisation devait se poursuivre, il n’est pas exclu que se produisent, à Gaza ou en Cisjordanie, des phénomènes comme ceux qu’on a connus en Algérie. Que de petits groupes armés très radicaux émergent et se mettent à agir de manière totalement incontrôlée. Cela serait très dommageable. Car ce ne serait pas une radicalisation de la lutte politique et pour l’émancipation de la cause palestinienne.

Il ne s’agit pas ici de dire que la résistance armée n’est pas un droit légitime. Par contre, que des petits groupes armés, des gangsters, des bandes, se servent de leurs armes pour faire régner leur loi dans les « territoires palestiniens », ce serait catastrophique.

Silvia Cattori : Dans ce que vous nous dites, ce qui parait très inquiétant pour le peuple palestinien est sa fragmentation. Cette fragmentation a été longuement étudiée, aussi bien par des universitaires que par les stratèges militaires israéliens ; et elle a été opérée par toutes sortes de mesures répressives. Le but de cette politique effrayante n’était-il pas de briser les structures mentales de ce peuple très résistant, et de le diviser en dressant des factions les unes contre les autres ?

Julien Salingue : Il est certain que la fragmentation a été très minutieusement étudiée, sur le plan géographique notamment, et qu’elle a été programmée avec la construction des colonies et des routes de contournement pour découper la Cisjordanie en des dizaines d’îlots séparés les uns avec les autres.

Par cette fragmentation programmée et organisée, Israël tente de détruire la conscience de l’existence d’un peuple palestinien unifié et d’un combat commun à mener.

Pour nombre de militants palestiniens, une des tâches essentielles de l’heure est de lutter contre cette destruction de leur identité et de travailler à maintenir vivante leur histoire nationale.

Par le découpage qu’ils ont opéré, les Israéliens ne sont malheureusement pas loin d’avoir atteint leur objectif consistant à tuer l’idée qu’il existe une identité nationale palestinienne et que les Palestiniens ont des droits politiques à conquérir.

La fragmentation entre Palestiniens était déjà très importante, entre ceux qui vivent en Israël, ceux qui vivent à Gaza, ceux qui vivent en Cisjordanie et ceux qui vivent dans des camps au Liban, en Jordanie et en Syrie. Alors si, à la fragmentation géographique entre la Cisjordanie et Gaza s’ajoute encore une fragmentation provoquée par des tensions internes, on s’éloigne de plus en plus des conditions permettant de formuler un programme commun.

Silvia Cattori : Ainsi, une fois de plus, après avoir tenté toutes sortes de voies, les Palestiniens sont acculés à faire profil bas ?

Julien Salingue : C’est justement parce que la situation est difficile que les Palestiniens ont le plus besoin de nous, il est très important de clarifier les tâches du mouvement de solidarité.

C’est un moment de reflux mais il ne faut pas être pessimistes quand à l’avenir. Il faut être réalistes si l’on veut être utiles.

Silvia Cattori



[1] La Mokata est composée d’un pâté d’immeubles entourés de hauts murs, qui abritent le gouvernement de l’Autorité palestinienne à Ramallah. Ce lieu, avec son luxe de services et son ballet de limousines et ses autorités qui se plaisent à se faire photographier en compagnie des « grands », est révélateur de la folie où versent ces autorités si éloignées de la réalité de leur peuple sous occupation et souffrant la faim !

'No elections if Hamas will win'

Saleh Al-Naami, Al-Ahram Weekly, 30-5/08/07. PLO elections are not in the cards, and neither are general Palestinian legislative and presidential elections, the main problem being that the West Bank is still under Israeli occupation and Gaza remains effectively under Israeli siege, so that Israeli approval and cooperation would be required in order to ensure that the balloting process proceeds with any degree of smoothness. Israeli Interior Minister Avi Dichter was very clear on this point. On Friday he told Israeli army radio, "we will not approve of the elections until we can be sure that Hamas won't win."

Recent opinion polls gave them the warning signal. A poll appearing in Al-Quds, a Fatah mouthpiece funded by the Palestinian office of the presidency, indicated that Ismail Haniyeh would come out miles ahead of any other presidential candidate. According to the poll, if elections were held now, 51.38 per cent of the electorate would elect him, whereas only 13.37 per cent would vote for Abu Mazen, 12.62 per cent for Fatah leader Marawan Barghouti and a mere 4.99 per cent for Salam Fayyad, head of the current emergency government.

So, as the situation stands, there appears to be a general unanimity among all parties concerned, each for their own very separate and different reasons, over the impossibility of holding elections in Palestine at this time.

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Still campaigning for co-existence

The Economist, 30/08/07. There is still no shortage of Israeli-Palestinian co-existence projects, but serious activists are more sceptical of them than they used to be. Seven years after the last serious peace talks collapsed, polls show that most Israelis and Palestinians still think a two-state solution is the only viable end to their conflict. But their views on the details, such as the borders and the fate of Palestinian refugees, remain far apart, and most doubt it will happen in the next few years. When Israel's main peace groups called a rally in June to mark 40 years of occupation, perhaps 4,000 people turned up. The many hundreds of Israeli and thousands of Palestinian deaths during the second intifada have hardened hearts; Israeli security measures have rendered most of the projects that brought together Israelis and Palestinians across the Green Line (the pre-1967 border) impossible.
The start of the intifada, says Amnon Be'eri-Sulitzeano, the director in Israel of the Abraham Fund, was “a big bang in the co-existence world. Many activists realised that just bringing people together isn't enough.” Palestinians were unhappy that such projects often ignored the inequalities between them and Israeli Jews, or acted as a conscience-salve for the Israelis. “Existence first, co-existence later”, became a common Palestinian slogan.
Arab-Israelis, who, though a fifth of the population, contribute less than a tenth of GDP.
A study earlier this year by Israel's Haifa University found that a seven-month peace-education programme for teenagers did very little to change basic attitudes about each other, and any changes were lost again a few months later. Seeds of Peace, which brings Israeli and Palestinian children to summer camps in the United States (pictured), realised after some years that it had to involve them in follow-up projects too.

Still campaigning for co-existence

The Economist, 30/08/07.

There is still no shortage of Israeli-Palestinian co-existence projects, but serious activists are more sceptical of them than they used to be

Seven years after the last serious peace talks collapsed, polls show that most Israelis and Palestinians still think a two-state solution is the only viable end to their conflict. A joint lobby group, OneVoice, hopes to get a million of their signatures on a petition calling for immediate peace talks; it has 435,000 so far. But their views on the details, such as the borders and the fate of Palestinian refugees, remain far apart, and most doubt it will happen in the next few years. When Israel's main peace groups called a rally in June to mark 40 years of occupation, perhaps 4,000 people turned up. The many hundreds of Israeli and thousands of Palestinian deaths during the second intifada have hardened hearts; Israeli security measures have rendered most of the projects that brought together Israelis and Palestinians across the Green Line (the pre-1967 border) impossible.
The start of the intifada, says Amnon Be'eri-Sulitzeano, the director in Israel of the Abraham Fund, was “a big bang in the co-existence world. Many activists realised that just bringing people together isn't enough.” Palestinians were unhappy that such projects often ignored the inequalities between them and Israeli Jews, or acted as a conscience-salve for the Israelis. “Existence first, co-existence later”, became a common Palestinian slogan.
Arab-Israelis, who, though a fifth of the population, contribute less than a tenth of GDP.
A study earlier this year by Israel's Haifa University found that a seven-month peace-education programme for teenagers did very little to change basic attitudes about each other, and any changes were lost again a few months later. Seeds of Peace, which brings Israeli and Palestinian children to summer camps in the United States (pictured), realised after some years that it had to involve them in follow-up projects too.

giovedì 30 agosto 2007

PCHR Seriously Concerned by the Closure of 103 NGO’s

PCHR is extremely concerned by the decision taken by the Interior Minister in the Palestinian Government in Ramallah to dissolve 103 benevolent associations and non-governmental organizations alleging administrative, financial, or legal violations. The Centre fears that this step is taken within the context of recent restrictions placed on civil society to undermine its role and restrict its work under the “State of Emergency” declared on 14 June 2007 in the OPT.

The Prime Minister in Ramallah, Dr. Salam Fayyad, stated on Tuesday, 28 August 2007, that his government has decided to dissolve 103 non-governmental organizations in the OPT for “committing legal, administrative, or financial violations of Law No. 1 of the Year 2000 on Benevolent Societies and Non-Governmental Institutions.” Fayyad asked the beneficiaries of these organizations to head to the Ministry of Social Affairs in his government to state their needs.

It is noted that on 20 June 2007, President Mahmoud Abbas issued a Presidential Decree stipulating that all non-governmental organizations must reapply for registration. The first article in the decree granted the Minister of Interior “the authority to review the registration of all associations and non-governmental organizations issued by the Ministry of Interior or any other governmental body.” The second article granted the Minister of Interior or his delegate the right to “take the steps deemed suitable regarding associations and non-governmental organizations including closure, correction of status, or any other measures.” The third article stipulated that “all associations and non-governmental organizations must submit new registration applications within one week, and all those who violate are subject to legal action.” At the time, PCHR strongly condemned the decree, and considered it a serious violation of the constitutional right to form associations. In addition, the Centre viewed the decree subjects associations and non-governmental organizations to more restrictions that those already imposed by the Benevolent Associations and Non-Governmental Organizations Law of the Year 2000.

On 2 July 2007, the Under-Secretary of the Minister of Interior in Ramallah, Amin Maqboul, requested that associations and non-governmental organizations speed up the process of correcting their legal status within one week. The request included submitting an application to receive a written letter from the Under-Secretary to re-activate their bank accounts, to receive the new application forms, and to submit the new application within a week. Maqboul asked West Bank associations and non-governmental organizations that were registered by the Ministry of Interior in Gaza to “submit new registration applications to fulfill legal requirements within one week. Otherwise they will be considered in a state of violating the law.” The Under-Secretary considered “all associations working in Palestine that are not registered in accordance with the effective law or did not correct their legal status to be in a state of violating the law” and that they should “submit new registration applications within one week to be processed by the Ministry. Otherwise, they will be legally dissolved.”

The Centre criticized these procedures by the Ministry of Interior and called for stopping them. These measures were considered an introduction to attack legally-registered civil society organizations, so as to close them or restrict their work and role during the “State of Emergency” in the OPT.

PCHR fears that the decision to dissolve 103 benevolent organizations and non-governmental organizations and the restrictions on civil society are implemented as part of the “State of Emergency” in the OPT. It is noted that there were no Presidential decrees to end the “State of Emergency” or its decrees, including the one on the re-registration of associations. The Center’s fears are accentuated by the fact that most of the associations to be dissolved were registered in Gaza during the tenure of ex-Minister of Interior, Sa’id Seyam, during the Hamas government.

In light of these developments, PCHR:

- Affirms the right to form associations as a basic human right protected by the Palestinian Basic Law.

- Points that this decision is a violation of the Benevolent Associations and Non-Governmental Organizations Law No. 1 for the Year 2000 that states in its Article 37 that all violating associations must be given a written notice by the Ministry and to be given a the legal timeframe to correct its conditions.

- Calls upon the government in Ramallah to rescind this decision that will cut off humanitarian and emergency aid to thousands of Palestinian families.

- Calls for keeping Palestinian civil society out of the ongoing power struggle, and to protect the independence of civil society and its work.

- Stresses the importance of the role of civil society during the ongoing crisis, especially in the provision of humanitarian, emergency, and medical aid to Palestinian civilians.

Public Document

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For more information please call PCHR office in Gaza, Gaza Strip, on +972 8 2824776 - 2825893

PCHR, 29 Omer El Mukhtar St., El Remal, PO Box 1328 Gaza, Gaza Strip. E-mail: pchr@pchrgaza.org, Webpage http://www.pchrgaza.org

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PCHR Is Concerned Over the Detention and Torture of a Number of Fatah Supporters by the Executive Force

PCHR is deeply concerned over the arrest campaign waged by the Executive Force in the past two days against a number of supporters of Fatah movement in Gaza City and the central Gaza Strip. PCHR calls for an investigation into the torture and beating of a number of detainees during their detention by the Executive Force and to take legal action against the perpetrators. .

According to investigations conducted by PCHR, on Saturday morning, 25 August 2007, the Executive Force arrested 15 residents of al-Daraj neighborhood in the east of Gaza City to interrogate them about their participation in the prayer conducted in the Unknown Soldier Yard in Gaza City on the preceding day, and the demonstration that followed. Fatah movement had called for doing the Friday Prayer in the Unknown Solider Yard, in protest to what it described as “the incitement and politicization of religious preaches at mosques.” According to a number of released detainees, they were beaten and humiliated during their detention at al-Saraya security compound. They were also forced to sign a document pledging not to participate in any activities organized by Fatah movement and not to give any information to the media, and if they break this pledge, they must pay 3,000 JD (approximately US$ 4,285).

In the same context, the Executive Force arrested 3 residents of the same neighborhood on Sunday morning, 26 August 2007. They were also beaten, humiliated and forced to sign the same pledge.

In his testimony to PCHR, one of the released detainees stated:

“At approximately 04:15 on Saturday, 25 August 2007, many members of the Executive Force broke into the yard of our house and arrested my brother who got out to check what was going on. They then ordered me and my other brothers to get out. As soon as I got out, they handcuffed, blindfolded and violently beat me. They placed me in a jeep and then transported me to al-Saraya compound. During our way to al-Saraya compound, they continued to beat me. I sustained fractures to my left hand and upper jaw. In al-Saraya security compound, they interrogated me about my participation in the Friday prayer and the demonstration that followed. During the interrogation, they beat and insulted me. They then forced me to sign a document pledging not to participate in demonstrations and activities organized by Fatah movement and not to talk to the media, and if I violate this pledge, I must pay 3,000 JD. They released me and my brothers at approximately 09:00 on the same day.”

On Saturday morning, 25 August 2007, the Executive Force arrested 5 supporters of Fatah movement in Nusairat refugee camp in the central Gaza Strip, because they did not allow members of Hamas to deliver a statement at the mourning house of Nizar al-‘Abeed, who was killed by Israeli Occupation Forces on 18 August 2007. Members of the Executive Force violently beat the detainees and cut their hair.

In his testimony to PCHR, one of the released detainees stated:

“At approximately 09:00 on Saturday, two masked persons intercepted me when I was walking in the market. They took me in a vehicle towards Jenin outpost near the police station of the central Gaza Strip. There, they handcuffed, blindfolded and beat me. They then started to interrogate me. During the interrogation, they violently beat me and hit my head to the wall until I fainted. They also cut my hair. The interrogation continued for an hour and a half. After the interrogation, they detained me in a room for half an hour. They hanged me with a cord, and started to beat me violently until I fainted again. Later, they took me to a toilette and ordered me to clean it with my hands. An hour later, they took me to a room, where they interrogated and violently beat me. At approximately 22:00, they forced me to sign a document pledging not to cause chaos or insult Hamas, and then released me.”

PCHR strongly condemns these actions, and:

1. Calls for an immediate investigation into such practices, prosecuting the perpetrators and taking steps to prevent their recurrence.

2. Reminds that torture is outlawed by Palestinian Law, and is a serious human rights violation under international human rights instruments, especially the Convention against Torture and other forms of Cruel, Inhumane, or Degrading Treatment (1984).

3. Stresses that arrests under the Palestinian Law are the mandate of judicial warranty officials represented by the civilian police, working under the instruction and supervision of the Attorney-General.

4. Affirms that the right to peaceful assembly is ensured by the Basic Law and the Law of Public Meetings #12 of 1998.

Public Document

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For more information please call PCHR office in Gaza, Gaza Strip, on +972 8 2824776 - 2825893

PCHR, 29 Omer El Mukhtar St., El Remal, PO Box 1328 Gaza, Gaza Strip. E-mail: pchr@pchrgaza.org, Webpage http://www.pchrgaza.org

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