Michele Giorgio inviato a Gaza, il manifesto, 29/08/07. «Pensa, semina, insegna ai tuoi figli cosa vuol dire amare/ pensa, semina, comprendi che i tuoi figli hanno un'anima/ devi capire che ogni neonato rappresenta il presente e il futuro/ devi capire che il presente vorrà un futuro in questo mondo devastato». A Gaza fioriscono i gruppi rap, costretti a muoversi nel limiti imposti dal movimento islamico che ha preso il potere nel giugno scorso. Cantano l'angoscia di una quotidianità ristretta e le miserie di un paese diviso.
Sami Bakhit del rapper nero non ha solo il look, ma anche il colore della pelle, che ricorda le sue origini nordafricane e, ancora più indietro nel tempo, nubiane. Sami osserva il mare di Gaza, leggermente mosso, dove i bambini si tuffano nelle onde lanciando grida di piacere. «Mi chiedi se il rap può raccontare Gaza, i nostri sogni, la nostra vita, la lotta per la libertà? Sì, ne sono convinto perché i suoi testi sono come uno scalpello che scava nella mente delle persone introducendovi idee e riflessioni», dice poggiando sul tavolo i suoi occhiali a goccia scuri, sotto lo sguardo attento del fratello Fadi, «manager» della band, che mantiene contatti con rapper libanesi e di altri paesi arabi.
Sami Bakhit, 21 anni, ha dato vita ai Dead Army un paio di anni fa, assieme agli amici Dani Salem e Mohammed Antar dopo aver sviluppato una passione incontenibile per il ritmo hip hop, grazie anche al concerto tenuto a Gaza dal rapper franco-algerino Naili. «Capimmo che quella musica, quel modo di cantare e parlare, erano comprensibili dai ragazzi di Gaza, stanchi delle canzonette tutto zucchero e amore delle star del pop arabo che ci mostrano le tv satellitari. Gaza ha bisogno di voci che sappiamo riferire il suo dolore, le sue ansie, non di qualche strofa che addolcisce il cuore», continua Sami accendendo lentamente una sigaretta. Poi, all'improvviso, inizia a cantare «Il presente», uno dei brani dei Dead Army più ascoltato su myspace.com dai cultori di rap arabo: «Pensa, semina, insegna ai tuoi figli cosa vuol dire amare/ pensa, semina, comprendi che i tuoi figli hanno un'anima/ devi capire che ogni neonato rappresenta il presente e il futuro/ devi capire che il presente vorrà un futuro in questo mondo devastato».
I Dead Army sono solo una delle tante band spuntate a Gaza negli ultimi due anni. RFM, B.R., R.G., nomi che non dicono molto ma che a Gaza sono diventati punti di riferimento per i giovani già amanti dei Dam, il gruppo di Lod che ha fatto conoscere il rap palestinese anche all'estero. Suonano nei sottoscala, in piccole sale, un po' in segreto, «incidono» brani davanti a telecamere non-professionali o a telefoni cellulari e poi provvedono a mettere musica e immagini in rete.
Il sito di riferimento per tutti è Palrap.net ma i RFM sono riusciti ad incidere un cd vero e proprio con l'aiuto del Centro culturale francese. Il clima sociale, conservatore e religioso, di Gaza non approva il rap, ritenuto troppo lontano dalla tradizione. È peraltro scoraggiante il fatto che nessuna delle band includa delle ragazze. «Molti di noi (rapper) non avrebbero problemi a far salire sul palco anche delle donne ma qui è impossibile. In Cisgiordania il rap è una realtà da lungo tempo mentre a Gaza appena un anno fa l'unico che aveva il coraggio di dichiarare il suo attaccamento per questo tipo di musica e non esitava ad esibirsi in pubblico era B.R. (Mohammed Farra, di Khan Yunis). Siamo solo all'inizio», racconta Bassam Masri, 20 anni, leader di R.G. (Revolution Guys), band che fa della condanna dell'occupazione israeliana e del rispetto della memoria del presidente Yasser Arafat, lo scopo principale della sua esistenza.
«Vogliamo superare - spiega - gli slogan abituali della politica e della religione, e offrire percorsi di comunicazione che consentano ai giovani di Gaza di esprimere quello che hanno dentro e la loro voglia di tenere viva la resistenza all'oppressione israeliana». I testi di R.G. sono eloquenti: «Hanno cucinato e mangiato la storia lasciandoci gli avanzi/ hanno preso Gerusalemme e la Palestina tenendoci nudi nel gelo/ ma la causa non muore/ sarà sempre la nostra causa/ non importa se gli altri rimangono in silenzio/ non importa se gli arabi dormono». Per Bassam e suo fratello Mohammed, Arafat rimane «il leader che aveva saputo tenere insieme tutti i palestinesi e rappresentare, con la sua esistenza, la causa di un interno popolo». Parole che suonano come una sentenza mentre i palestinesi sono spaccati e, sotto le pressioni di Stati uniti, Israele ed Europa, nulla lascia sperare in un ripresa del dialogo tra Abu Mazen che controlla la Cisgiordania, e Hamas che a metà giugno ha preso il potere a Gaza.
I Dead Army, R.G. e gli altri rapper cantano con angoscia di questa lacerazione ma senza schierarsi. «Nessun palestinese voleva tutto questo - dice Sami Bakhit - siamo giovani ma sappiamo che lo scontro tra Hamas e Fatah è frutto della sete di potere dei nostri leader e fa solo gli interessi dei nemici del nostro popolo. Se non saremo uniti rimarremo per sempre sottomessi».
Gaza è una realtà molto complessa, una enorme prigione senza tetto di cui gli israeliani controllano ogni ingresso ed uscita, con un milione e mezzo di «detenuti» che affrontano ogni giorno problemi eccezionali, anche la fame, e dove tutto viene vissuto in modo esasperato. Le donne sono spesso le vittime di questo clima carcerario fatto di regole crudeli e inaccettabili. Dall'inizio dell'anno 11 giovani palestinesi sono state brutalmente ammazzate per «motivi di onore», tra cui tre sorelle trovate in una discarica il mese scorso a Deir al Balah. L'assassino, un cugino, le accusava di aver avuto rapporti sessuali completi con uomini del posto e, dopo l'arresto, non ha mostrato rimorso persino quando l'autopsia ha rivelato che erano vergini. «Il rap serve anche a raccontare tutto ciò - dice Sami - serve ad aprire gli occhi ai giovani, a lottare contro vecchi modi di pensare e agire. La nostra identità, la nostra cultura sono pilastri ai quali non rinunceremo, ma scrollandoci di dosso i retaggi di tradizioni che non possiamo più accettare senza discutere, faremo solo del bene alla nostra causa e alla costruzione del nostro futuro».
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