Ron Leshem, 31 anni, fa anche lui parte dell'élite di Tel Aviv, uno che non ha mai combattuto. Però sui diciottenni che vanno in guerra ha scritto un romanzo (uscito ieri in Italia, con il titolo «Tredici soldati», Rizzoli), bestseller in Israele e vincitore del premio Sapir, dal quale è tratto il film Beaufort, premiato a Berlino. Pubblicato in Israele 10 mesi prima della seconda guerra in Libano, ambientato durante gli ultimi mesi della prima, è la storia di diciottenni «mandati a morire per nulla», anche se dicono a se stessi di combattere per proteggere Israele. Ma per quei giovani Leshem non nasconde la sua ammirazione. «Rimpiango di non essere stato al fronte, non per il combattimento, ma per le emozioni forti, per l'amore che nasce tra le persone quando la tua vita dipende dall'altro. Non ho mai avuto un'amicizia così». Cresciuto in un mondo benestante e di sinistra, a 23 anni Leshem ha mollato gli studi di legge, diventando un giornalista contro il parere della mamma avvocato e del papà manager. Il giornale Yedioth Ahronoth lo ha inviato a Gaza come corrispondente nel 2000 durante l'Intifada. Timido e secchione, incontra là per la prima volta un mondo diverso. I soldati israeliani gli sembrarono «forti, estroversi, così puri». E quei ragazzi hanno letto il suo libro e non si sono sentiti disprezzati, vi si sono riconosciuti. I genitori di un ragazzo morto la scorsa estate in Libano hanno trovato il romanzo di Leshem sul suo cuscino. I compagni ne hanno letto degli stralci al funerale.
«Tel Aviv è così lontana da tutto questo. È una bolla, chiusa, isolata — dice Leshem —. Le persone sono stanche della guerra e dei problemi sociali. Preferiscono vivere pensando di essere a New York. Non vedono ciò che sta loro attorno. Passano la giornata in spiaggia, la notte al cinema e nei night club. Alcuni non leggono nemmeno i giornali. E come biasimarli, ci vuole uno stomaco forte. Sono distaccati dalla sofferenza dei palestinesi e dalla sofferenza del loro stesso popolo, dalla perdita di vite, una continua perdita di vite senza alcuna ragione».
Ma questo isolamento dalla realtà ha conseguenze gravissime, dice Leshem. «Quando l'élite prende le decisioni nelle alte torri di Tel Aviv, sono spesso decisioni sbagliate, distaccate mentalmente e socialmente alla situazione reale. Due dei figli di Olmert non hanno fatto il servizio militare e l'altro ha smesso prima della fine. Ed è lui quello che ha firmato l'autorizzazione ad andare in guerra in Libano la scorsa estate. Forse se i suoi figli avessero prestato servizio, la sua decisione sarebbe stata diversa ».
David Grossman ha chiamato Leshem dopo l'uscita del libro per fargli i complimenti. «Lo ammiro veramente. Non sapevo cosa dire. Avevo paura di suonare stupido. Mi ha detto che non l'avrebbe fatto leggere alla moglie perché il figlio era in Libano. Lui andava alle manifestazioni per dire: guardate che li stiamo mandando a morire per nulla. Ma ha mandato Uri in guerra lo stesso. Quando Uri è morto non ho avuto il coraggio di chiamarlo ».
«Una volta c'era il senso che quando si mandavano i nostri ragazzi in guerra lo si faceva per una giusta causa — continua Leshem —. Ora chi stiamo mandando a morire? E ci stiamo ponendo tutte le domande prima di farlo? La risposta è no». Leshem ha incontrato tante famiglie di ragazzi morti, e dopo l'uscita del libro è stato chiamato a parlare di guerra tante volte. Ne è stato risucchiato, dice che vuole tirarsene fuori. Ha lasciato il lavoro di giornalista perché «non vivevo più, attaccato al beeper ». Oggi è il numero due al Canale 2 della tv israeliana. Un manager che si occupa di intrattenimento. Scende in strada, e si allontana, occhiali scuri, maglietta blu, jeans, passo atletico. Torna nella bolla.
«Tel Aviv è così lontana da tutto questo. È una bolla, chiusa, isolata — dice Leshem —. Le persone sono stanche della guerra e dei problemi sociali. Preferiscono vivere pensando di essere a New York. Non vedono ciò che sta loro attorno. Passano la giornata in spiaggia, la notte al cinema e nei night club. Alcuni non leggono nemmeno i giornali. E come biasimarli, ci vuole uno stomaco forte. Sono distaccati dalla sofferenza dei palestinesi e dalla sofferenza del loro stesso popolo, dalla perdita di vite, una continua perdita di vite senza alcuna ragione».
Ma questo isolamento dalla realtà ha conseguenze gravissime, dice Leshem. «Quando l'élite prende le decisioni nelle alte torri di Tel Aviv, sono spesso decisioni sbagliate, distaccate mentalmente e socialmente alla situazione reale. Due dei figli di Olmert non hanno fatto il servizio militare e l'altro ha smesso prima della fine. Ed è lui quello che ha firmato l'autorizzazione ad andare in guerra in Libano la scorsa estate. Forse se i suoi figli avessero prestato servizio, la sua decisione sarebbe stata diversa ».
David Grossman ha chiamato Leshem dopo l'uscita del libro per fargli i complimenti. «Lo ammiro veramente. Non sapevo cosa dire. Avevo paura di suonare stupido. Mi ha detto che non l'avrebbe fatto leggere alla moglie perché il figlio era in Libano. Lui andava alle manifestazioni per dire: guardate che li stiamo mandando a morire per nulla. Ma ha mandato Uri in guerra lo stesso. Quando Uri è morto non ho avuto il coraggio di chiamarlo ».
«Una volta c'era il senso che quando si mandavano i nostri ragazzi in guerra lo si faceva per una giusta causa — continua Leshem —. Ora chi stiamo mandando a morire? E ci stiamo ponendo tutte le domande prima di farlo? La risposta è no». Leshem ha incontrato tante famiglie di ragazzi morti, e dopo l'uscita del libro è stato chiamato a parlare di guerra tante volte. Ne è stato risucchiato, dice che vuole tirarsene fuori. Ha lasciato il lavoro di giornalista perché «non vivevo più, attaccato al beeper ». Oggi è il numero due al Canale 2 della tv israeliana. Un manager che si occupa di intrattenimento. Scende in strada, e si allontana, occhiali scuri, maglietta blu, jeans, passo atletico. Torna nella bolla.
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