venerdì 5 ottobre 2007

Osama Hamdan, leader di Hamas in Libano: Il diritto al ritorno

Milena Nebbia, peace reporter, 03.\0.07. “Gli israeliani non accettano uno stato palestinese, quindi non si va verso la possibilità di un reale accordo, specie sulla questione del diritto al ritorno. Non possiamo parlare dei diritti dei palestinesi senza parlare dei rifugiati e del diritto al ritorno nella loro patria. Un filo di dialogo sembra ancora possibile, ma non ci sarà né sicurezza né stabilità senza il diritto al ritorno. Questo diritto può essere ottenuto con mezzi politici pacifici attraverso un accordo o dalla resistenza. Il governo di Abu Mazen a Ramallah rappresenta una parte del popolo, lui non rifiuta mai di incontrare Olmert, ma rifiuta di parlare con noi, finchè non si dialoga tra di noi mi pare difficile un dialogo con Israele. C’è un’ultima opportunità: l’unione tra palestinesi per negoziare la creazione di uno Stato all’interno dei confini del 1967, il ritorno dei profughi e la fine delle colonie”.

Incontriamo Osama Hamdan, leader di Hamas in Libano, nel campo profughi palestinese di Borj Al Barajneh, nella periferia meridionale di Beirut. E’ uno di quelli duramente colpiti dall’offensiva israeliana del luglio 2006: 35mila abitanti, disoccupazione all’80 percento, la gente per lo più vive alla giornata, i giovani imbracciano il fucile o bighellonano. Si percepisce tensione. Troppe armi in giro: i fatti di Nahr el-Bared hanno creato uno stato di allarme.

Una crisi dura. Hamdan riceve la delegazione italiana del comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” nel cortile di una scuola elementare del campo. Inevitabile che il discorso cada subito sulla situazione interna al governo palestinese.
“Bisogna prima capire le ragioni che ci hanno portato a questa crisi interna - dice - le elezioni del 2006 hanno cambiato la realtà palestinese: la Resistenza ha avuto il diritto di governare il popolo palestinese, questo naturalmente è stato difficile da accettare da parte di chi ha governato per quarant’anni. Una parte di questi, insieme ad alcuni ufficiali della sicurezza, tra i quali il colonnello Mohammed Dahlan (ex Ministro dell’Interno di Abu Mazen, poi cacciato dalla stanze di potere, e vero capo di Fatah a Gaza) si è legata ad Israele per contrastare la forza di Hamas. Dopo quindici mesi dalle elezioni, queste persone hanno tentato un golpe contro la democrazia, senza peraltro riuscirci. E questo malgrado gli accordi della Mecca degli inizi del 2007 (accordi del febbraio 2007 tra Hamas e Fatah che sembravano poter preludere ad una distensione tra le due forze politiche e che si sperava potessero fermare la spirale di violenza nella Striscia di Gaza e avviare negoziati con Israele n.d.r.). Ma questa parte non ha voluto ascoltare ragioni: hanno finanziamenti dall’amministrazione americana per armamenti e munizioni. Era necessario assumere un’ iniziativa per proteggere la democrazia”.

Il lungo tunnel. Come uscire da questa crisi? “Tornare all’accordo. Ricostruire il sistema politico palestinese, decidere come gestire la lotta con Israele, ricostruire i mezzi di sicurezza palestinesi, che non appartengano a una sola parte, con professionisti non politicizzati, riabilitare l’immagine dei palestinesi, anche quella della diaspora (che ha riguardato più della metà del nostro popolo). Si dovrebbe realizzare un congresso nazionale palestinese...invece, specie a Gaza, sono presenti diverse fazioni. Noi volevamo un coordinamento tra le diverse anime, aspiravamo ad un’azione unica palestinese per affrontare Israele…”.

La pace è lontana. Quali sarebbero le condizioni per una tregua con gli israeliani? “Gli israeliani non accettano uno stato palestinese, quindi non si va verso la possibilità di un reale accordo, specie sulla questione del diritto al ritorno. Non possiamo parlare dei diritti dei palestinesi senza parlare dei rifugiati e del diritto al ritorno nella loro patria. Un filo di dialogo sembra ancora possibile, ma non ci sarà né sicurezza né stabilità senza il diritto al ritorno. Questo diritto può essere ottenuto con mezzi politici pacifici attraverso un accordo o dalla resistenza. Il governo di Abu Mazen a Ramallah rappresenta una parte del popolo, lui non rifiuta mai di incontrare Olmert, ma rifiuta di parlare con noi, finchè non si dialoga tra di noi mi pare difficile un dialogo con Israele. La leadership di Arafat aveva riconosciuto Israele, ma cosa ha fatto Israele per i palestinesi, ha forse riconosciuto il diritto al ritorno? No, ha solo accerchiato Arafat nella Mukata appoggiando le correnti di Fatah che volevano rovesciarlo. Israele non ha sfruttato quell’opportunità. Ora c’è un’ultima opportunità: l’unione tra palestinesi per negoziare la creazione di uno Stato all’interno dei confini del 1967, il ritorno dei profughi e la fine delle colonie”.
Il suo parere sui fatti del campo di Nahr El-Bared?
“Il popolo palestinese non c’entra con Nahl el Bared, ma tutto il mondo incolpa noi. Questi terroristi non appartengono al tessuto sociale e politico palestinese, per questo sono andati via”.


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