Avraham Yehoshua, La Stampa, 28.11.07. Domani, 29 novembre, ricorre il sessantesimo anniversario della decisione dell’Onu di dividere la Palestina-Terra d'Israele in due Stati: ebraico e palestinese. Questa decisione - per l'approvazione della quale era necessaria la maggioranza di due terzi degli Stati membri dell'Onu - si rese possibile grazie alla rara collaborazione fra due blocchi rivali: quello comunista sovietico e quello occidentale democratico. All'inizio della Guerra fredda, superando le ideologie rivali e gli scontri politici in varie parti del mondo, Usa e Urss concordarono di sostenere la proposta, giusta ma problematica, di dividere la regione geografica denominata Palestina in parti pressoché uguali fra i due popoli che vi risiedevano.
L’area in questione ricopriva pressappoco ventisettemila chilometri quadrati. La decisione dell'Onu prevedeva che gli ebrei avrebbero avuto il controllo di quattordicimila chilometri quadrati (all'incirca la metà dei quali occupati da deserto), e i palestinesi dei rimanenti tredicimila. Tale ripartizione fu stabilita in base alla concentrazione della popolazione e, nonostante a quell'epoca il numero dei palestinesi fosse quasi il doppio di quello degli ebrei (un milione e trecentomila mila contro 600.000), si prevedeva che dopo l'apertura delle frontiere del nuovo stato centinaia di migliaia di profughi israeliti rimasti senza casa e senza patria al termine della seconda guerra mondiale vi si riversassero.
Cosa spinse le due superpotenze rivali ad adottare questa decisione, criticata e respinta dagli stati arabi che dichiararono che avrebbero fatto il possibile per sabotarla e distruggere la neonata nazione ebraica?
Il motivo di una così ampia coalizione non era dovuto a interessi geopolitici. Al contrario, sia gli Stati Uniti che l'Unione Sovietica erano ben intenzionati a evitare uno scontro con il vasto e ricco mondo arabo e musulmano. E se malgrado tutto fecero fronte comune per sostenere la creazione di uno stato ebraico la ragione, a mio avviso, è da ricercarsi nello shock profondo provocato dalla Shoah. La decisione del 29 novembre, oltre a essere un tentativo di risarcire moralmente i sopravvissuti, intendeva probabilmente neutralizzare, anche se solo in parte, il terribile e pericoloso virus dell'antisemitismo, tanto distruttivo per le vittime quanto per i loro carnefici.
Lo sterminio di sei milioni di ebrei, all'origine del quale non c'erano controversie territoriali, ideologiche, religiose o economiche, ma una fantasiosa teoria razziale che li considerava una razza inferiore (quando invece non sono mai stati una razza a parte) e il fatto che, benché ideato e messo in atto dai nazisti, l'Olocausto avesse riscontrato un'eco positiva e goduto persino della collaborazione parziale dei popoli da loro assoggettati, dimostrava che il «problema ebraico» non era puramente tedesco ma mondiale, antico, esteso e in grado di innescare brutalità devastatrici. Basta rileggere la biografia di Hitler per rendersi conto di quanto il suo odio patologico per gli ebrei fosse alla base di ogni sua azione e lo avesse ossessionato fino alla fine dei suoi giorni. Per debellare l'antisemitismo, dunque, non bastava combattere forme violente di razzismo, ma era necessario collaborare a livello internazionale per aiutare gli ebrei a cambiare radicalmente il loro sistema di rapporti con il mondo che li circondava, a costruire una realtà indipendente e sovrana in un territorio sul quale essi potessero esercitare l'autodeterminazione alla quale ogni popolo ha diritto.
Ma dove si sarebbe potuto trovare questo territorio? Persino gli arabi moderati, che avevano accettato il presupposto che gli ebrei fossero un popolo e non solo gli affiliati a una religione, e, a fatica, e meramente a livello teorico, che avessero diritto all'auto determinazione, rifiutavano fermamente l'eventualità che uno stato ebraico potesse occupare una parte (seppur minima) del loro territorio. Non solo perché tale esproprio sarebbe stato lesivo dell'identità araba, ma anche perché il problema ebraico ai loro occhi era sostanzialmente europeo. L'antisemitismo e la Shoah erano nati dallo scontro tra il mondo cristiano e gli ebrei in Europa, nella quale la maggior parte di questi ultimi aveva vissuto nel secondo millennio. La decisione di spartire la Palestina dal loro punto di vista era dunque un'ingiustizia e un sopruso ancor prima che ci fosse anche un solo profugo palestinese sulla faccia della terra. Nei secoli precedenti gli ebrei erano stati una minoranza insignificante nella minuscola regione del Medio Oriente denominata Palestina e la creazione di uno stato ebraico avrebbe fatto sì che milioni di essi vi si trasferissero da ogni parte della diaspora e, in seguito alla pressione demografica, potessero sconfinare anche in zone arabe adiacenti. La risoluzione delle Nazioni Unite proclamava infatti a chiare lettere che lo stato ebraico sarebbe stato essenzialmente sionista, ossia aperto a tutto il popolo ebraico (e d'altro canto sarebbe stato ingiusto privare il popolo palestinese di una parte del suo territorio per costituire una nazione destinata solamente ai seicentomila ebrei lì presenti nel 1947). La valenza morale di tale risoluzione scaturiva quindi dal desiderio che il nuovo stato risolvesse, o alleviasse almeno in parte, il problema ebraico e ogni israelita perseguitato potesse trovarvi rifugio.
L'opposizione arabo palestinese era naturale e logicamente comprensibile. Ogni altro popolo si sarebbe probabilmente comportato allo stesso modo. L'affermazione del diritto storico degli ebrei sulla Palestina, dove duemila anni prima avevano mantenuto uno regno sovrano, era priva di un valido fondamento etico, tanto più che molti di loro avevano lasciato volontariamente la terra di Israele già nel quinto secolo a.C. e per duemila anni dopo la distruzione del secondo Tempio, avvenuta nel settanta d.C., non vi erano tornati nonostante avessero potuto farlo. Solo in seguito alle pressioni create da violente manifestazioni antisemitiche avevano compreso la necessità di normalizzare la loro situazione, di tornare a esercitare una propria sovranità e di essere responsabili del proprio destino come ogni altro popolo.
È vero che dopo la Shoah fu spiegato agli arabi che, siccome il problema ebraico non era esclusivamente europeo ma mondiale, anche loro dovevano sobbarcarsene il peso, e che gli ebrei potevano ricostruire una loro sovranità unicamente nella terra di Israele, loro patria storica, e in nessun altro luogo al mondo (in ogni caso non era stato proposto loro un luogo alternativo giacché nessun popolo avrebbe accettato di rinunciare a una parte del proprio territorio per concedere l'autonomia a un altro). I palestinesi, quindi, non avevano altra scelta che accogliere il piano di spartizione.
Così, a partire dal novembre 1947, questa decisione è stata all'origine di problemi, complicazioni e guerre che vanno avanti ormai da sessant'anni, malgrado fosse motivata da una sincera volontà di risolvere, o alleviare, uno dei problemi più profondi e antichi del mondo: la questione ebraica. Né l'Onu, né ogni altro stato suo membro fecero però qualcosa per renderla effettiva. Gli inglesi, che per trent'anni avevano avuto il controllo politico e militare della Palestina, dopo essersi astenuti dal voto durante l'assemblea delle Nazioni Unite, si astennero anche da ogni tentativo di tradurre in pratica la delibera e di creare una separazione ragionevole tra i due stati che sarebbero sorti. Sei mesi dopo la votazione lasciarono la regione e le due parti nel caos più totale.
I palestinesi, che sapevano che non avrebbero potuto fronteggiare da soli lo stato ebraico, chiamarono in aiuto le nazioni arabe e dopo il ritiro della Gran Bretagna gli eserciti di sette stati invasero la Palestina per ributtare a mare gli ebrei e, già che c'erano, annettere magari una parte dei territori palestinesi. Le grandi potenze, dal canto loro, ormai quasi pentite della risoluzione presa, rimasero a guardare, senza cercare di imporre in alcun modo la decisione ai palestinesi, o di risarcirli economicamente per le aree espropriate. Non tentarono nemmeno di fermare gli eserciti arabi e lasciarono che gli ebrei si difendessero da soli dalla massiccia invasione che minacciava di sterminarli.
A partire da quel giorno, dunque, si può dire che in Medio Oriente siano entrati in gioco quattro fattori devastanti che il tempo non riesce a placare.
1.Un sentimento di profonda ostilità dei palestinesi nei confronti dell'Occidente per aver imposto loro la spartizione. Tale sentimento filtra in tutto il mondo arabo ed è alla base di una posizione di irremovibilità che pone come condizione al riconoscimento della legittimità di Israele il ritorno dei profughi della guerra del '48 nelle loro case. Accettare questa condizione per Israele significherebbe decretare la propria fine.
2.Un latente senso di colpa dell'Onu nei confronti dei palestinesi che lo ha portato a perpetuare assurdamente il loro problema anziché risolverlo. A causa infatti del suo regolare sostegno economico ai profughi la maggior parte di costoro da sessant'anni continua a vivere in squallidi campi in Palestina, talvolta a dieci o venti chilometri di distanza dalle loro case di origine, ed è questa situazione di degrado che attizza la fiamma che rende vana ogni possibilità di soluzione o rappacificazione tra le parti.
3.La sensazione di abbandono che gli ebrei provarono subito dopo l'approvazione della spartizione quando si ritrovarono costretti a combattere da soli contro gli eserciti arabi per assicurare la propria sopravvivenza. Tale sensazione li ha resi aggressivi, sospettosi e sprezzanti di ogni decisione dell'Onu diretta a risolvere il conflitto, soprattutto della 242, votata subito dopo la guerra dei sei giorni che li impegna a restituire tutte le zone occupate durante la guerra in cambio di pace e sicurezza.
4.L'incomprensione del mondo arabo e musulmano del tentativo di risolvere il doloroso problema ebraico mediante la spartizione. Da sessant'anni infatti gli arabi non considerano quella decisione come uno sforzo di migliorare in qualche modo la situazione di un popolo duramente colpito, ma una cospirazione dell'occidente imperialista ai loro danni. Una manovra per innestare nel loro territorio una roccaforte ebraica «crociata» e indebolire l'identità arabo-musulmana.
Ancora oggi ricordiamo, e a ragione, l'importante e fondamentale data del 29 novembre 1947 e comprendiamo le complesse e gravi conseguenze che la mancata messa in atto della risoluzione dell'Onu ha avuto per la regione e per il mondo intero. La conclusione può essere dunque questa:
la comunità internazionale deve impegnarsi a implementare il piano di spartizione e a creare due stati entro i confini del 1967. Per rendere più effettiva la soluzione tali stati, a tempo debito, saranno accettati come membri della comunità europea. I profughi del '48 torneranno nella loro patria, la Palestina, ma non nelle loro case in Israele, che in ogni caso non esistono più. Israele si ritirerà entro i confini del 1967 - che lasciano comunque in suo possesso tre quarti del territorio della Palestina storica -, ma non oltre, e le zone restituite ai palestinesi saranno smilitarizzate (seguendo l'esempio di ciò che fu attuato dopo la pace firmata con l'Egitto) per garantire la sicurezza dello stato ebraico da ogni possibile minaccia futura.
mercoledì 28 novembre 2007
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