Operazione Colomba, Agosto 2007. Un alto muretto a secco circolare, del diametro di 20 metri mi circonda, più distante sta un asino legato, completamente bianco, che rumina biada.
Badr un ragazzino di 10 anni munge una capra in un piccolo ovile tra altre capre e pecore. La scena è un po’ comica, Badr alza una gamba posteriore dell’animale e munge in un bidone da 3 litri pieno a metà.
L’espressione della capra non è cambiata, dritta, palpebre a metà, rumina qualcosa. La capra ondeggia, Badr grida e la batte sul dorso, ma registro che l’espressione della capra è identica.
Giusto per dare qualche coordinata, sono ai margini dei Territori Occupati o West Bank, più famigliarmente Palestina. Hebron è a qualche decina di km a nord, a sinistra con un modesto binocolo si vedrebbe il mar Morto, dietro le dune della Giordania, è la terra dei beduini.
Badr potrebbe essere figlio o nipote del pastore Kaled. Il pastore potrebbe avere molti meno anni di quanto ne dimostri. Ora è affaccendato, il mangime agli animali, tira l’acqua col secchio dal pozzo, sistema le lamiere che fanno l’ovile. In poco tempo la cena è servita da Reemah e dalla moglie di Kaled, a noi uomini, le donne mangeranno dopo. Pane appena cotto a forma di focacce, pomodori tagliati, uova sode, una specie di jocca ma molto più buona, l’immancabile ciotola con l’olio d’oliva.
Poco prima Kaled mi ha invitato a cena, in realtà stavo tornando da Abu Kalil, il pastore che mi ha ospitato l’altra notte. Un ragazzino viene a chiamarmi per la cena, alzati – dice – vieni con me. Kaled invece fa: no, sta seduto. A rafforzare il primo fronte si avvicina la seconda moglie di Abu Kalil, infine interviene anche la moglie di Kaled. Seguono pochi minuti di arabo concitato, ma il senso è chiaro. Sono indeciso sul da farsi, chiedere il menù alternativo mi pare troppo complicato. Con qualche gesto faccio segno che resterò da Kaled, dopo un po’ torna tutto come prima. Capisco Kaled, che ha insistito perché restassi a cena da lui.
Siamo stati tutto il pomeriggio vicini un tiro di sasso, lui con il gregge, io con un giallo trascinante in cerca di pietre da usare come sedili, con me la borsa dell’internazionale, acqua, macchina fotografica e videocamera pronti all’uso. Alcune ore prima John (un internazionale dell’EAPPI) ed io sotto il solleone abbiamo scorto Kaled e un altro pastore alle pendici di una collina, ci siamo divisi, a me è toccato Kaled.
Kaled era vicinissimo alla strada che porta alla stazione militare, una posizione rischiosa.
Naturalmente in altri tempi non sarebbero mai andati li, i soldati sicuramente li avrebbero fatti sgomberare puntandogli i fucili contro, ma da ieri i militari ci hanno visti per cui questa volta hanno lasciato stare, infatti oggi non si sono neppure affacciati. Chissà da quanto Kaled meditava questa sortita.
In realtà, la stazione militare è tre colline più avanti ma loro si sono allargati un poco e cacciano i pastori per kilometri tutt’intorno, riducendo di molto i pascoli disponibili. La terra è dei pastori da generazioni, ma questa è l’occupazione. Kaled si sente obbligato verso me e mi offre i prodotti del suo lavoro, devo dire molto buoni. Mi domando chi mi ha dato tanto potere, il potere di possedere un passaporto occidentale. I soldati mi possono chiedere i documenti, ma non possono fermarmi né arrestarmi.
Invece a Kaled, si. Il mio passaporto batte la carta d’identità di Kaled 10 a 1.
Ieri c’è stato un primo contatto con i soldati, tre internazionali armati di videocamere contro tre soldati con i fucili spianati. Li abbiamo fatti arretrare. Da allora, i pastori si sentono più forti, la cena ha saldato il debito.
Sono nel posto giusto, la mia permanenza in Palestina ha ragione d’essere, il cammino è ripreso, i dubbi iniziali sono evaporati.
Apprezzo il tè bollente e dolce che segna la fine del pasto, ora che il sole è dietro le colline più lontane coinvolgendo una miriadi di colori, comincia a rinfrescare. Devo tornare da Abu Kalil, dovrei spiegare di essere stato invitato e raccontare del pomeriggio ma probabilmente non farò nulla di tutto questo, la lingua è ancora una barriera.
Vedo che le parole scritte stanno diventando assai numerose, corro il rischio di stancare i miei fedeli lettori.
Per cui rimanderò le doverose introduzioni al messaggio che seguirà, più avanti trovate il salmo 123 con qualche commento. È il titolo di questo scritto.
Buona notte a Kadel, ad Abu Kalil, Badr e a tutti gli altri. Buona notte a tutti voi. Una buona notte anche ai soldati, domani si ricomincia.
Marty
Salmo 123
1 Canto delle ascensioni. Di Davide. A te levo i miei occhi, a te che abiti nei cieli.
2 Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni; come gli occhi della schiava, alla mano della sua
padrona, così i nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi.
3 Pietà di noi, Signore, pietà di noi, già troppo ci hanno colmato di scherni,
4 noi siamo troppo sazi degli scherni dei gaudenti, del disprezzo dei superbi.
Il pellegrino ha oramai Gerusalemme a portata di mano. Il primo versetto è densissimo. Dal salmo 122 il motivo della lode si è spostato da Gerusalemme a colui che abita nei cieli. Come se il contatto con Gerusalemme lo disturbasse. Ora che è cosi vicino, un senso di ripulsa lo assale.
La meta diventa motivo di sofferenza, addirittura di scandalo. Succede quello che è normale in ogni luogo di pellegrinaggio: chi viene da lontano, povero, devoto è subito trattato come un cliente da imbrogliare. Nel caso migliore viene deriso e ci si approfitta di lui.
Il viandante subito si accorge che il contesto non è in sintonia con l’intensa partecipazione interiore, la devozione che ha caratterizzato il viaggio. S’accorge di essere estraneo e che Gerusalemme è occupata.
La bella, l’eletta, la benedetta è inquinata! Gli ultimi 2 versetti riportano un grido, il pellegrino direbbe: “basta, non ne posso più”. Il salmo si era aperto con lo sguardo verso il Signore, ora l’implora di guardare perseguitati e persecutori. Fa comprendere che coloro che approfittano di Gerusalemme per i loro interessi non sono le sole fonti di disgusto. Il rigetto proviene anche da ciò che noi rispondiamo loro.
È sazietà per un infame violenza reciproca, di cui ci s’ingozza fino alla nausea.
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