sabato 15 dicembre 2007

Salam Fayad: Il dopo-Annapolis è partito malissimo


Colonies israéliennes
Emad Hajjaj - Jordanie


Francesca Paci, La Stampa, 14.12.07. Israele minaccia di invadere Gaza. Può essere una soluzione? «Non entro nel merito di cosa debba fare l’esercito israeliano. Confido in una soluzione interna, il ripristino del legittimo governo palestinese. La gente di Gaza è depressa, arrabbiata». Intervista al premier palestinese che lunedì alla conferenza dei Paesi donatori di Parigi chiederà 5,6 miliardi di dollari per il futuro Stato palestinese «Come dite in Italia? Il buongiorno si vede dal mattino? A giudicare dall'ultimo incontro con i negoziatori israeliani, inflessibili sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania, sarà una brutta giornata per il processo di pace». Il premier palestinese Salam Fayad non cela la delusione: «Il dopo-Annapolis è partito con il piede sbagliato». Bisogna recuperare in fretta: lunedì a Parigi dovrà convincere i Paesi donatori a sborsare 5,6 miliardi di dollari per il futuro Stato palestinese, indipendente e soprattutto «economicamente florido». Businessman navigato oltre che ex ministro delle finanze, non vuol tornare a casa a mani vuote. Nato 55 anni fa a Dir al Rasum, un villaggio vicino Tulkarem, laureato in chimica a Beirut e in economia a Houston, consulente alla Banca Mondiale prima e poi rappresentante del Fondo Monetario Internazionale presso la neonata Autorità Nazionale Palestinese, estraneo alle gerarchie di al Fatah ma organico al suo popolo, Fayad è un vero self-made-man. Basta entrare nell’ufficio spartano di Ramallah dove ci riceve, per capire il tipo: la scrivania ordinata con il telefono da cui chiama regolarmente Olmert e la Casa Bianca; pochi efficienti impiegati che parlano arabo, ebraico e inglese; neppure l’ombra di un attestato autocelebrativo alle pareti.

La polemica sulle 307 nuove case che Israele vuole costruire a Gerusalemme est e un diluvio di razzi Qassam da Gaza sul Negev hanno accompagnano il primo colloquio dopo Annapolis. Il premier israeliano Olmert ha incontrato il presidente palestinese Abu Mazen mentre lei ha visto il ministro della difesa Barak e l’inviato del Quartetto Tony Blair. Qual è il bilancio di questo debutto?

«Molto negativo. Un inizio di giornata pessimo per il processo di pace. Che Israele continui l’espansione degli insediamenti è in contraddizione con Annapolis. Le colonie vanno rimosse, su questo non si discute. Ne va della credibilità dell’intero percorso. Gli insediamenti sono incompatibili con la pace».

E i razzi Qassam?

«Capisco la preoccupazione degli israeliani. La loro sicurezza è anche la nostra. Gaza rappresenta un problema per entrambi. Ma sugli insediamenti non ho trovato alcuna sensibilità».

A Parigi proporrà il «Building a Palestinian State», un piano triennale da 5.6 miliardi di dollari: come li utilizzerà?

«Il piano è dettagliato. Un quinto delle risorse, per esempio, andrà all’educazione: vogliamo formare una generazione con curriculum internazionali. Nel 2008 investiremo 427 milioni nello sviluppo. Ma attenzione, i fondi sono un aiuto non la soluzione: il problema israelo-palestinese è politico, non economico. L’economia non basterà a sciogliere i nodi».

L’ultimo rapporto della Banca Mondiale spiega che l’economia palestinese dipende dalla mobilità e dunque dalle restrizioni israeliane. Ma tra il 1993 e il 2002 i palestinesi hanno ricevuto 4 miliardi di dollari, a gennaio 2007 1,2 miliardi di dollari (il 10% in più rispetto al 2006). Eppure, il reddito pro-capite di uno dei popoli più sovvenzionati del mondo è calato dell’8%, il livello della povertà è aumentato del 30%, la disoccupazione è al 40%. È solo colpa degli israeliani?

«Ovviamente no. E capisco le obiezioni che faranno i donatori. Per quanto
tempo ci dovranno mantenere? Hanno ragione. Stiamo lavorando sugli sprechi: da maggio a oggi abbiamo tagliato 40 mila posti nel settore pubblico, pagato 6 mesi di salari congelati da un anno e mezzo, avviato 150 progetti internazionali. Stiamo costruendo la polizia palestinese e in tre anni ridurremo il deficit del 11,3%. Ma non basta. Israele deve contribuire, i check-point ci limitano, vanno rimossi. Per decollare dobbiamo poter accedere al mercato mondiale. Ma su questo la collaborazione israeliana è pari a zero».

Il piano Building a Palestinian State prevede la riapertura del porto e dell’aeroporto di Gaza. Non le pare utopico, oggi?

«Gaza non starà così per sempre. Va restaurata la legittimità politica. Non esiste Stato palestinese senza Gaza e non esiste Stato senza infrastrutture. Il porto e l’aeroporto, come i valichi di frontiera, saranno il volano della nostra economia».

Israele minaccia di invadere Gaza. Può essere una soluzione?

«Non entro nel merito di cosa debba fare l’esercito israeliano. Confido in una soluzione interna, il ripristino del legittimo governo palestinese. La gente di Gaza è depressa, arrabbiata».

Ipotizziamo la soluzione interna: come farete a dialogare con Hamas che neppure riconosce Israele?

«Posso confrontarmi con il pluralismo politico, con Hamas abbiamo divergenze politiche enormi. Ma non posso confrontarmi con il pluralismo in tema di sicurezza. Hamas deve smantellare le milizie, non tollereremo armi al fuori dalle istituzioni».

Due Stati per due popoli. È ancora il progetto vincente?

«È l'unico possibile. Lo sosteniamo ormai da 15 anni».

Si fida del presidente Bush?

«Ad Annapolis abbiamo visto l’amministrazione americana molto impegnata. Lo stesso Bush sembra assai determinato».

E i palestinesi?

«Se mi fido? Certo. È il mio popolo. L’importante è spiegargli le priorità, le sfide, le prospettive».

Di Israele infine, si fida?

«Guardo alle azioni e quelle israeliane non sono incoraggianti. Voglio la pace per entrambi i popoli, un futuro migliore, i nostri e i loro diritti. Ma se il buongiorno si vede dal mattino...».

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