Corriere della Sera. 14/07/07. Il segretario dei Ds Fassino interviene nel dibattito aperto da Piero Ostellino sul rapporto tra Occidente e conflitto israelo-palestinese. "Un riconoscimento preventivo richiederebbe l'accordo — che ad oggi non c'è e anzi dovrà essere uno degli oggetti principali di qualsiasi negoziato — sui confini che i palestinesi dovrebbero riconoscere: quelli del '67? Quelli negoziati a Camp David? Quelli dell'attuale tracciato del muro? Un'altra possibile strada è far maturare atti di riconoscimento de facto che creino così progressivamente le condizioni per poi approdare ad un esplicito riconoscimento de jure di Israele".
Caro direttore, si deve discutere e negoziare anche con Hamas o no? E se sì, a quali condizioni? Intorno a questi interrogativi — di cui ha parlato anche Piero Ostellino sul Corriere — ruota il dibattito su come riaprire in Medio Oriente la strada di un processo di pace che oggi appare bloccato e alla deriva. E' evidente a tutti, infatti, che una pace che coinvolgesse solo Al Fatah, la cui crisi d'altronde non può essere ignorata, rischierebbe di essere una pace non definitiva e non dare a Israele quella sicurezza che lo Stato ebraico giustamente chiede.
Caro direttore, si deve discutere e negoziare anche con Hamas o no? E se sì, a quali condizioni? Intorno a questi interrogativi — di cui ha parlato anche Piero Ostellino sul Corriere — ruota il dibattito su come riaprire in Medio Oriente la strada di un processo di pace che oggi appare bloccato e alla deriva. E' evidente a tutti, infatti, che una pace che coinvolgesse solo Al Fatah, la cui crisi d'altronde non può essere ignorata, rischierebbe di essere una pace non definitiva e non dare a Israele quella sicurezza che lo Stato ebraico giustamente chiede.
E peraltro chiunque vede i rischi enormi per Israele se Gaza si trasformasse in una enclave integralista ancora più fanatica, aperta a quel punto anche alle infiltrazioni di Al Qaeda. D'altronde, una pace che non comprendesse Gaza sarebbe monca e inaccettabile per lo stesso Abu Mazen. Dunque avere una strategia con cui gestire i rapporti con Hamas non è questione eludibile. E ciò conduce al nodo del «riconoscimento» di Israele. E' evidente — per me lo è da moltissimo tempo — che non ci sarà pace in Medio Oriente se non si riconosce che lì non sono in conflitto un torto e una ragione, ma due ragioni: il diritto di Israele a essere riconosciuto e a esistere come nazione ebraica; l'aspirazione del popolo palestinese a vedere riconosciuta la propria identità in uno Stato indipendente proprio. E chi nel campo palestinese si ostina a non riconoscere l'esistenza di Israele, negandone i diritti, deve sapere che non otterrà pace, né la nascita dello Stato palestinese. E, dunque, è assolutamente giusto che Israele chieda a ogni interlocutore, anche ad Hamas, di essere riconosciuto senza ambiguità e reticenze. La strada più limpida e lineare è, naturalmente, il riconoscimento preventivo come condizione per ogni altro successivo atto. E insistere finché non lo si ottiene. Il che tuttavia comporta il rischio di tempi lunghi, segnati da altri anni di conflitti, sofferenze, tragedie. Peraltro un riconoscimento preventivo richiederebbe l'accordo — che ad oggi non c'è e anzi dovrà essere uno degli oggetti principali di qualsiasi negoziato — sui confini che i palestinesi dovrebbero riconoscere: quelli del '67? Quelli negoziati a Camp David? Quelli dell'attuale tracciato del muro? Un'altra possibile strada è far maturare atti di riconoscimento de facto che creino così progressivamente le condizioni per poi approdare ad un esplicito riconoscimento de jure di Israele. Un approccio contenuto nella lettera sottoscritta dai 10 Ministri degli Esteri — di governi sia conservatori, sia progressisti — dei paesi della Ue che si affacciano sul Mediterraneo. E' ciò che auspicano anche Giordania e Egitto, unici paesi arabi ad aver firmato trattati di pace con Israele. E' un approccio presente nella stessa società israeliana, come dimostrano le parole pronunciate proprio in questi giorni da Shlomo Ben Ami, già Ministro degli esteri nel governo Barak, che ha detto: «Alla fine il Presidente Abu Mazen dovrà tornare agli accordi di La Mecca e contrattare di nuovo con Hamas un governo di unità nazionale... solo coinvolgendo anche Hamas, i palestinesi uniti possono negoziare con Israele».
Va ricordato peraltro che in tutti i negoziati fin qui condotti da Israele — con l'Egitto, con la Giordania e anche con la Siria, sia pure questi ultimi finora senza successo — il riconoscimento è sempre stato posto come risultato finale del negoziato, non come condizione preliminare. In ogni caso in questa fase la questione non è di contatti diretti Israele-Hamas — a cui la stessa Hamas non è pronta — ma come ricostruire intorno ad Abu Mazen un governo di unità nazionale, che comprenda anche Hamas, e con cui Israele possa negoziare intanto una tregua. Negoziati che — anche questo deve essere chiaro — andrebbero sottoposti a condizioni precise, quali la sospensione da parte di Hamas dei bombardamenti su Sderot e degli attentati e delle attività militari contro Israele, e da parte israeliana la fine degli omicidi mirati e l'alleggerimento delle misure restrittive che rendono dura la vita quotidiana della popolazione in Cisgiordania. La proposta dei 10 Ministri degli Esteri di una forza militare internazionale di interposizione nei Territori potrebbe rendere più certe quelle condizioni e offrire maggiore sicurezza a Israele. E lo stesso impegno di Tony Blair, quale nuovo rappresentante del Quartetto, potrebbe costituire fattore di garanzia.
D'altra parte la strada di atti di riconoscimento de facto per aprire la strada al riconoscimento de jure è stata spesso praticata, come nel '91 quando nella Conferenza di Madrid, il primo ministro israeliano Shamir accettò di sedersi allo stesso tavolo con Feisal Husseini e i dirigenti palestinesi dei territori, che rappresentavano anche l'Olp che pure manteneva ancora molte ambiguità e reticenze sul riconoscimento di Israele. È fin troppo nota la formula — «perseguire la pace come se il terrorismo non ci fosse; combattere senza quartiere il terrorismo, come se il problema della pace non ci fosse» — con cui Yitzhak Rabin, senza concedere nulla alla violenza, non rinunciava a ricercare la pace anche con chi si ostinava a non riconoscere Israele. E dovrebbe far riflettere il fatto che in questi giorni in Israele si discuta sulla eventualità di concedere la grazia a Marwan Barghuti, uno dei leader palestinesi di Al Fatah, che la giustizia israeliana ha condannato a cinque ergastoli. C'è qualcuno che pensa che tale provvedimento di clemenza sarebbe assunto dal neopresidente di Israele Shimon Peres a cuor leggero? Evidentemente no. E tuttavia Peres sa bene — e nella sua vita lo ha dimostrato molte volte — che per ottenere la pace, spesso, occorre anche il coraggio di atti difficili. E trattare non è tradire.
Piero Fassino
Dice Fassino che una pace che coinvolgesse solo Al Fatah e trasformasse Gaza in una enclave integralista (io direi terrorista) non rassicurerebbe Israele. Giusto. Fassino formula altresì l'auspicio che si individui una strategia con cui gestire i rapporti con Hamas e che consenta di ricostruire intorno a Abu Mazen un governo di unità nazionale. Giusto. Ma questi sono nodi che devono risolvere i palestinesi al loro interno e le potenze interessate sul piano diplomatico. Francamente non capisco in cosa consisterebbe il riconoscimento de facto di Israele da parte di Hamas di cui parla l'amico Fassino se i due sedessero a un tavolo negoziale. Poiché Hamas non riconosce il diritto di Israele a esistere, di che discuterebbero? Del diritto di Israele a esistere? Della legittimità della risoluzione dell'Onu del 1947 che spartiva la Palestina e dalla quale avrebbero dovuto nascere Israele e lo Stato palestinese; risoluzione che il mondo arabo non ha accettato, impedendo così de facto la nascita dello Stato palestinese? Mi spiega Fassino perché mai Israele dovrebbe sedersi a un tavolo con chi non gli riconosce il diritto di esistere e (ri)discutere la legittimità di tale diritto; come non bastasse, sconfessando e indebolendo Abu Mazen che invece glielo riconosce? Mi piacerebbe che a queste semplici domande si rispondesse con maggiore chiarezza, soprattutto da parte del ministro degli Esteri.
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