lunedì 10 settembre 2007

Al di là degli scontri fra Hamas e Fatah Come il mondo intero ha seppellito la Palestina

Il Dialogo, 06/09/07, da Alain Gresh, Le Monde diplomatique (traduzione dal francese di Josè F. Padova). Immediatamente dopo le elezioni al Consiglio legislativo del gennaio 2006 si stabiliva una strategia orchestrata dagli Stati Uniti e da Israele, avallata dall’Unione Europea e ripresa da una frazione di Fatah, allo scopo di invertire con ogni mezzo i risultati delle urne. Mentre Hamas auspicava la costituzione di un Governo d’unione nazionale, le pressioni americane impedirono un simile accordo. Il boicottaggio economico puniva la popolazione per avere «votato male»: non toccava per nulla le capacità finanziarie e militari di Hamas, come hanno dimostrato i combattimenti a Gaza, ma impoveriva la Palestina e, soprattutto, accelerava la disgregazione delle istituzioni. Certamente, lo Stato palestinese non esiste, ma le poche strutture dell’Autorità, messe su con difficoltà dal 1993 in poi, non hanno resistito oltre al boicottaggio internazionale.

Bisogna salvare il presidente Mahmud Abbas! All’unanimità la «comunità internazionale» lo proclama alto e forte. Perfino Ehud Olmert scopre all’improvviso in M. Abbas un «partner» per la pace. Sordi per anni alle opprimenti notizie ufficiali [rapporti, relazioni, studi…] circa la situazione della Cisgiordania e di Gaza pubblicate da istituzioni tanto diverse fra loro come lo sono la Banca Mondiale, Amnesty International o l’Organizzazione Mondiale della Sanità, Casa Bianca e Unione Europea sarebbero finalmente uscite dal loro profondo letargo?

Questo risveglio repentino è stato suscitato dalla vittoria senza appello di Hamas a Gaza. Eppure né gli Stati Uniti né Israele avevano lesinato sui mezzi militari dati a Fatah per vincere le elezioni, autorizzando a più riprese il passaggio d’armi destinate alla Guardia presidenziale e alla Sicurezza preventiva (1). Non è servito a nulla. La defezione della maggior parte dei responsabili militari di Fatah (Mohammed Dahlan, Rachid Abou Shabak, Samir Masharawi) , che hanno preferito rintanarsi in Cisgiordania o in Egitto invece di rimanere al fianco delle loro truppe, è uno dei tanti elementi che spiegano una cocente disfatta. L’incapacità di Fatah di riformarsi, di abbandonare il proprio status di Partito-Stato di uno Stato che non esiste per quello di forza politica «normale» ne è un altro: nepotismo, corruzione, spirito di casta continuano a incancrenire l’organizzazione fondata da Yasser Arafat.

Ma l’ingiustificabile ferocia degli scontri fra Hamas e Fatah a Gaza illustra anche lo smembramento della società palestinese, accelerato da quindici mesi di boicottaggio internazionale. Esecuzioni sommarie, vendette, saccheggi hanno segnato i combattimenti, mentre l’un campo accusava l’altro di essere al soldo dello straniero. Già il 12 gennaio, nel corso di un grande meeting a Gaza con Mohammed Dahlan, la folla sbeffeggiava gli «sciiti» di Hamas (2). L’organizzazione islamica da parte sua denuncia i suoi nemici come agenti d’Israele e degli Stati Uniti o, semplicemente, come kuffar («infedeli»). La giornalista israeliana Amira Hass nota che «i due campi trasformano i civili in ostaggi e li condannano a morte nei combattimenti di strada, sacrificando la causa palestinese sull’altare della loro rivalità (3)». La Palestina paga la militarizzazione della lotta politica, che si accompagna con il culto della violenza e di un esasperato machismo.

Una disgregazione programmata

In un messaggio disperato, inviato via Internet il 12 giugno, lo psichiatra palestinese Eyad Serraj deplora: «Quanto odio e appelli tribali alla vendetta. Non si tratta soltanto di una lotta politico-militare per il potere (…). Noi siamo stati tutti sconfitti da Israele e questo sentimento di umiliazione si ritorce contro nemici più piccoli al nostro interno. Israele ci ha brutalizzati con l’oppressione e la tortura e ha provocato dolori e traumi che ora mostrano la loro orripilante immagine attraverso una violenza tossica e cronica».

Da parte sua, il giornalista israeliano Gideon Levy descrive così il retaggio di quarant’anni d’occupazione: «Questi giovani che abbiamo visto ammazzarsi tanto crudelmente fra loro sono i figli dell’inverno 1987, i figli della prima Intifada. La maggior parte di loro non ha mai lasciato Gaza. Per anni hanno visto i loro fieri fratelli maggiori battuti e ingiuriati, i loro genitori imprigionati nelle loro stesse case, senza lavoro e senza speranza. Essi hanno vissuto tutta la loro vita all’ombra della violenza israeliana (4)».

Questo naufragio della Palestina può essere fermato? Forse, se le dichiarazioni americane ed europee fossero, una volta tanto, seguite da fatti, se la «comunità internazionale» decidesse infine d’imporre la creazione di uno Stato palestinese. Cinque anni fa, nel giugno del 2002, lo stesso presidente Gorge W. Bush aderiva a una pace fondata su due Stati che vivessero fianco a fianco. Tuttavia, in seguito, non è successo nulla.

Ricordiamolo. Il governo israeliano non ha mai smesso, durante gli anni 2003 e 2004, di proclamare che il solo ostacolo alla pace era Arafat. Il vecchio leader era stato assediato nei pochi metri quadrati del suo quartiere generale della Moqata a Ramallah. Ariel Sharon proferiva: «Il nostro Bin Laden è Yasser Arafat». La «comunità internazionale» lasciava fare.

Scomparso Arafat l’11 novembre 2004, Mahmud Abbas lo sostituiva alla testa dell’Autorità palestinese. Il più «moderato» dei dirigenti dell’organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) era ben deciso a rilanciare il «processo di pace», ma i suoi gesti d’apertura non portarono a niente: la colonizzazione si accelerò e così anche la costruzione del muro di separazione: i posti di blocco trasformarono qualsiasi spostamento di qualche chilometro fra due villaggi in una odissea dall’esito incerto. Un terreno fertile per la vittoria di Hamas alle elezioni del Consiglio legislativo del gennaio 2006.

Hamas ha saputo utilizzare tre grandi atout presso la popolazione: la sua partecipazione alla resistenza contro l’occupazione, la sua rete di aiuti sociali, l’incontestabile dedizione dei suoi quadri. Per questo gli elettori hanno votato per gli islamici, perché rifiutavano l’idea di una pace con Israele? Perché auspicavano un maggior numero di attentati suicidi? No, tutti i sondaggi d’opinione lo confermano, la popolazione aspirava in maggioranza a una soluzione fondata su due Stati. Hamas, d’altra parte, lo aveva capito bene: la sua piattaforma politica elettorale era ben diversa dalla sua Carta che, come quella dell’OLP negli anni ’60, esaltava la distruzione delle Stato d’Israele. Molti suoi dirigenti affermavano che, a certe condizioni, il loro Movimento era pronto ad aderire alla creazione di uno Stato palestinese sui soli territori occupati nel 1967.

Immediatamente dopo le elezioni al Consiglio legislativo de gennaio 2006 si stabiliva una strategia orchestrata dagli Stati Uniti e da Israele, avallata dall’Unione Europea e ripresa da una frazione di Fatah, allo scopo di invertire con ogni mezzo i risultati delle urne. Mentre Hamas auspicava la costituzione di un Governo d’unione nazionale, le pressioni americane impedirono un simile accordo. Il boicottaggio economico puniva la popolazione per avere «votato male»: non toccava per nulla le capacità finanziarie e militari di Hamas, come hanno dimostrato i combattimenti a Gaza, ma impoveriva la Palestina e, soprattutto, accelerava la disgregazione delle istituzioni.

Certamente, lo Stato palestinese non esiste, ma le poche strutture dell’Autorità, messe su con difficoltà dal 1993 in poi, non hanno resistito oltre al boicottaggio internazionale.

Una via d’uscita si aprì nel febbraio 2007 con la firma degli accordi della Mecca, fra Hamas e Fatah, sotto l’egida del re Abdallah dell’Arabia saudita. Il 12 febbraio, durante un’intervista alla televisione saudita Al-Ikhbariya, Khaled Meshal, capo dell’Ufficio politico di Hamas, spiegava il programma del governo d’unità nazionale. «Non è quello di un gruppo particolare. (…) ogni fazione ha le sue proprie convinzioni ma, come governo d’unità nazionale, noi ci siamo messi d’accordo su basi politiche, che definiscono le nostre mete nazionali e ciò cui noi aspiriamo: uno Stato palestinese nelle frontiere del 4 giugno 1967». Questa dichiarazione, fra le molte altre, confermava un’evoluzione di Hamas (5), che avrebbe potuto essere «testata» dalla «comunità internazionale». Tanto più che questa flessibilità era accompagnata dal rilancio dell’iniziativa di pace araba che proponeva a Israele una normalizzazione delle sue relazioni con i suoi vicini in cambio della creazione di uno Stato palestinese (6).

Robert Malley, direttore del Programma per il Medio Oriente dell’ International Crisis Group ed ex consigliere del presidente Clinton, scriveva questi concetti premonitori: «Il successo della Mecca dipenderà (…) molto dall’atteggiamento internazionale. Già si levano voci che, mentre salutano ipocritamente lo sforzo saudita, reclamano dal futuro Governo che rispetti le condizioni imposte precedentemente. Dall’Amministrazione Bush non ci si attendeva di meglio. Ma l’Europa? Non ha proprio imparato nulla da questo fallimento collettivo? Se in Arabia saudita c’è stato accordo è proprio perché a Hamas non si è imposto di compiere una rivoluzione ideologica che non farà, ma lo si è piuttosto incoraggiato a realizzare un’evoluzione pragmatica che forse farà (…). Il percorso di Hamas è tale da giustificare che lo si metta alla prova: è disposto ad accettare e a imporre un cessate il fuoco reciproco? È disposto a lasciare mano libera al presidente Abbas, debitamente incaricato in quanto dirigente dell’OLP a negoziare con Israele? È d’accordo perché sia sottoposto a referendum qualsiasi accordo Mahmud Abbas avrà concluso? E si impegna a rispettarne i risultati (7)?».

Ciecamente la «comunità internazionale» si è ancor più infilata in un impasse. Essa ha mantenuto il boicottaggio, che non poteva altro che rafforzare gli elementi più radicali di hamas. Osservò indifferente la società palestinese che si disintegrava. Questo partito preso trova la sua giustificazione in una logica che Alvaro de Soto, coordinatore per le Nazioni Unite del processo di pace in Medio Oriente, ha denunciato in un rapporto confidenziale e opprimente (8). Trattiamo Israele, egli spiega, «con una grande considerazione, quasi con tenerezza». Il Quartetto (9) si è trasformato in «un organismo che impone le sue sanzioni contro il governo eletto di un popolo sotto occupazione e che pone condizioni impossibili da adempiere per il dialogo» e ha evitato ogni pressione sul governo israeliano, particolarmente per ciò che riguarda la colonizzazione e l’avanzata del muro.

«Legittima difesa» d’Israele?

Un soldato israeliano è rapito nel giugno 2006? La «comunità internazionale» praticamente non reagisce alla distruzione come rappresaglia della centrale elettrica e di costruzioni civili di Gaza e a un’offensiva militare che farà centinaia di vittime. Due soldati israeliani sono catturati nel luglio 2006 alla frontiera col Libano? Durante trenta giorni la «comunità internazionale» lascia distruggere il Paese dei Cedri e le sue infrastrutture. Israele esercita, così pare, il suo diritto di «legittima difesa». E durante questo tempo l’estensione delle colonie rende ogni giorno più improbabile la creazione di uno Stato palestinese.

Eppure il caos che si diffonde non garantisce per niente la sicurezza degli israeliani. La guerra del Libano dell’estate del 2006 aveva già dimostrato la loro vulnerabilità di fronte a una guerriglia determinata e bene armata. La prosecuzione dei tiri di missili su Sderot e l’incapacità dell’esercito israeliano di fare cessare i tiri costituiscono una seria disfatta, come ammetteva Zeev Schiff, cronista militare di Haaretz (morto da poco), qualche giono prima del passaggio della striscia di Gaza sotto il controllo di Hamas: «Israele è stato effettivamente battuto. (…). A Sderot Israele ha vissuto qualcosa senza precedenti dalla guerra d’indipendenza e forse in assoluto: il nemico è arrivato fino a ridurre al silenzio una intera città e vi ha fatto cessare ogni forma di vita normale (19)». Ciò che accade a Nahr Al-Bared e negli altri campi per rifugiati del Libano, o addirittura a Gaza, vale a dire la formazione di cellule radicali legate ad Al-Quaeda, dovrebbe ricordare a tutti che il naufragio della Palestina porterà con sé una radicalizzazione incontrollata e altri cataclismi per Israele e per tutta la regione.

(1) Amos Harel e Avi Issacharoff, « Fatah to Israel : Let us get arms to fight Hamas », Haaretz, Tel-Aviv, 6 juin 2007.

(2) Tutti i Palestinesi di Gaza sono sunniti. Ma il sostegno fornito da Teheran a Hamas «giustifica» questo tipo di accusa.

(3) « Sacrificing the Palestinian struggle », Haaretz, Tel-Aviv, 14 juin 2007.

(4) Gideon Levy, « Flight from Gaza. Last to leave did turn out the lights », Haaretz, Tel-Aviv, 17 juin 2007.

(5) Si legga Paul Delmotte, «Le Hamas et la reconnaissance de l’Etat d’Israël », Le Monde diplomatique, gennaio 2007.

(6) Contrariamente a quanto afferma la propaganda del governo israeliano, sovente riportata senza verifiche dai media, questa iniziativa non prevede il «diritto al ritorno» per i rifugiati palestinesi. Essa richiede una soluzione «giusta» e «negoziata» del problema dei rifugiati sulla base della risoluzione 194 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

(7) « Palestine, l’Europe face à ses responsabilités », Le Monde, 13 marzo 2007.

(8)http:/image.guardian.co.uk/sys-files/Guardian/documents,2007,06; I2’DeSotoReport.pdf

(9) Struttura creata nel 2003 per coordinare l’azione in Medio oriente, che raggruppa Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite.

(10) « An Israeli defeat in Sderot », Haaretz, Tel-Aviv, 8 giugno 2007.


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